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Se penetriamo nelle grandi caverne, osserviamo gli affreschi meravigliosi che colmano le pareti, ci soffermiamo sulle antiche testimonianze di devozione verso i morti, non possiamo sottrarci ad un’emozione profonda e a un sentimento di incondizionata ammirazione.
La commozione che coglie gli uomini di oggi di fronte alle opere dei loro più remoti predecessori è la forza viva che consente all’uomo di riconoscere se stesso, di là dalle barriere del tempo1.
Tutto quanto io ho scritto è poesia. Poesia, infatti, significa porsi in contatto mediante le parole, o le note, i colori ecc, la bellezza. Come è possibile farlo? Solo amando. Ma in particolare, amando e facendo la cronaca del proprio amore. Per riuscirci, occorre invocare l’aiuto di una forza estranea all’uomo che renda le parole, o i colori, le note, strumenti magici: atti, cioè, a penetrare volontariamente nel regno della distruzione. Questa forza è il demoniaco. [...]
Dunque,
con l’aiuto del demonico che fornisce le parole magiche, si fa la
cronaca del proprio amore. Ciò significa usare le parole magiche in
modo da distruggersi in esse, come in chi si ama. Distruggersi
in chi si ama significa gettare via tutte le limitazioni dei propri
sensi – che costituiscono la propria identità – e quindi morire
nell’emozione di amore e rinascere nella persona che si ama. Tutto
ciò è possibile nell’ambito del solo amore, e porta
all’immortalità ambedue gli amanti che si sono autodistrutti (come
mortali) l’uno nell’altro, per rinascere in una sola persona
immortale2.
Noi lo sappiamo insieme, nella tua bellezza ed in quella che io posso creare è il segno della distruzione, ci unisce in un lento delirio che è amore perché questa distruzione è immortale, vita estatica nel dolore di questa notte che si spezza, e sulle gambe immerse nel mare si aggrappano le conchiglie. Una per una le proviamo sull’unghia fino a sentirne il sangue3.
1.1 Morfologia della cultura
La prima monografia di Jesi è dedicata
a La ceramica egizia. Dalle
origini al termine dell’età
tinita (1958)4:
tale risultato di un lavoro di ricerca presso le collezioni del
«Pelizaeus-Museum» di Hildesheim, «ineccepibile da un punto di
vista storico-filologico»5,
prende in considerazione reperti di ceramica della valle del Nilo
dall’età neolitica all’età tinita, un arco cronologico
preistorico che dal VI millennio giunge al III millennio e
all’unificazione dei regni che diede vita all’Egitto dinastico.
«Il discorso critico-archeologico è
però da subito attento a cogliere le trasformazioni iconografiche e
morfologiche dei reperti presi in esame, traendo da queste
manifestazioni delle inferenze di carattere più ampio, appartenenti
alla semantica religiosa e mitologica»6:
in questo senso vale la pena di notare come il libro sia intitolato
alla memoria di Leo Frobenius, corredato di due introduzioni, una di
Boris De Rachewiltz7
e una dello stesso Jesi.
Frobenius, autore della Kulturgeschichte
Afrikas8
intellettuale conservatore
dalla grande influenza nella Germania guglielmina, è presente nel
testo come punto di riferimento teorico, sia per il contesto
specifico (sua la tesi per cui l’Egitto è il «vero punto di
contatto dell’Africa nera con il Mediterraneo»9)
sia per la «Kulturmorphologie»
e la connessa teoria del «paideuma, il sorgere e trasformarsi di
tutte le esperienze della coscienza commossa, secondo l’intimo
orientamento delle forme di una civiltà»10.
Sviluppando in modo autonomo la teoria
dei cicli culturali, l’etnologo ipotizzava ogni civiltà come
complesso organico dotato di una propria vita, la cui origine andava
ricercata in una matrice «oscura e profonda» responsabile dello
sviluppo umano e tale da “afferrare” l’uomo in senso non
razionale spingendolo verso la trasformazione; tale processo
evolutivo si articolava in stadi caratterizzati dallo stato
cognitivo, dall’intuizione
attraverso la maturità razionale fino alla fase meccanica e
materialista della decadenza di una civiltà. Paideuma11
(ciò che si acquisisce nella
cultura) era il principio dell’esperienza conoscitiva primordiale,
principio dinamico e attivo di cui l’uomo partecipa passivamente
subendo l’azione del mito: questo così era pensato come l’emento
produttivo della civiltà, le cui tracce possono essere colte nella
dimensione culturale
di cui l’arte è l’espressione più alta. Per Jesi il «paideuma»
è il «nucleo attivo» della «commozione», «determinante prima
della civiltà, trascendente l’uomo», concetto appartenente alla
«metafisica tedesca di quegli anni» e derivante dal «tentativo di
attingere alle fonti della civiltà attraverso l’oggettivazione
dell’esperienza psichica collettiva, così come in un altro campo
fu la dottrina dell’inconscio collettivo di C.G. Jung»12.
Come si legge in un frammento autografo
«nella sua fase originaria il mito
è verità inesprimibile,
accessibile soltanto tramite la commozione che permette di entrare in
contatto con un mondo super-umano. In tale fase il mito è la cosa
dinanzi alla quale la parola
si arresta»13.
In questo senso, la filosofia della
storia è sostanzialmente quella del
‘tramonto dell’occidente’
e l’antropologia presupposta è un primitivismo tipico
dell’etnologia ottocentesca e proto-novecentesca: le stesse
concezioni che de Rachewiltz professa scrivendo che «la vitalità
della coscienza africana si manifesta nel processo
zoo-cefalo-antropomorfico che
si oppone al pensiero razionale»14.
In qualità di prefattore questi presenta il lavoro di Jesi come lo
sviluppo originale della teoria della «commozione» (Ergriffenheit)
nel rapporto uomo-ambiente («sottratta alla legge di causalità e a
quelle del determinismo») con la teoria delle «connessioni
archetipiche, che in forma irrazionale si stabiliscono nella psiche
dell’individuo», definendola una sorta di «psico-analisi» che
consente di riportare «la simbologia decorativa e la morfologia
delle ceramiche agli elementi archetipici»15.
Dal canto suo Jesi esprime uno spirito nettamente antipositivista
spiegando che «la forma di espressione cosciente di determinati
fenomeni inconsci è rappresentata da una serie di concetti, legati
fra di loro in base ad affinità elettive dichiaratamente estranee
ai rapporti logici»16
e dichiarando che «in un gioco
che non sia regolato dall’illusione
spazio temporale, espressione significa mettersi in rapporto
di commozione con determinate
realtà»17.
In altri termini, sposando alcuni
aspetti della morfologia della cultura di Frobenius, Jesi accetta la
teoria della ‘commozione’, presupponendo, in modo analogo a
quanto sostenuto da Lévi-Bruhl sul carattere pre-logico della
mentalità primitiva, che la coscienza arcaica fosse sottratta allo
spazio-tempo18;
inoltre afferma che «tutto il volume rappresenta un piacevole
esercizio – e non a caso questo termine corrisponde all’exercice
poetico di Valery – una forma di adattamento al gioco,
un’approssimazione ad un inesistente “vero scientifico”»19.
Posto che la sua resistenza allo
storicismo non sarebbe mai venuta meno, benché differente nella sua
formulazione – almeno quanto Benjamin lo è da Frobenius –, Jesi
è ancora lontano da quanto avrebbe sostenuto con forza anni dopo:
ovvero che la lotta contro il razionalismo è uno dei sottotesti
dell’opera di molti intellettuali reazionari che videro proprio
nella razionalità e nel materialismo la causa di una decadenza
dell’Europa e dei suoi valori spirituali, pensando di richiamarsi
al mito come garante di una genuinità del senso della vita20.
De Martino, particolarmente attento alla
salvaguardia della ragione storica, commentando i presupposti della
scuola di Frobenius, ha scritto che «distribuzione nello spazio,
seriazione cronologica e identificazione dei nessi causali
appartengono al momento euristico dell’anamnesi storiografica»21:
intendeva così distinguere la teoria dal suo oggetto e riconoscere
l’importanza dell’approccio volto a comprendere la specificità
del mondo culturale dei ‘popoli di natura’ certamente diverso da
quello europeo. Ma allo stesso tempo avvertiva come la teoria della
«morfologia della civiltà» presupponesse un’«assenza di logos»
e delineasse «un quadro statico di entità [...] rigide, senza
sviluppo, ciascuna chiusa in se stessa da contemplarsi ciascuna nella
sua essenza gratuita», in modo tale che la storia si risolvesse «in
una serie di destini culturali che si consumano in se stessi. [...]
Percorrendo questa strada sino in fondo si mette capo al relativismo,
al fatalismo, al pessimismo e al dilettantismo di Oswald Spengler»22.
Com’è noto in base a un
severo criterio di matrice marxista e antifascista l’antropologo
napoletano includeva Frobenius, Rudolf Otto, Walter F. Otto e anche
Kerényi in una medesima temperie intellettuale politicamente
sospetta23;
eppure in questo primo tentativo teorico di Jesi24
si possono cogliere elementi di discontinuità che configurano uno
sviluppo differente dall’‘irrazionalismo metafisico’, nel senso
di un’indagine razionale
su forme
di
razionalità diverse da quella strettamente logico-discorsiva: sulla
scorta della psicologia analitica di Jung nella teoria delle
connessioni archetipiche l’associazione simbolica infatti è
collegata ai ritmi biologici e contaminata con elementi formalistici
di stampo storico-semiotico come quelli di Propp25.
Tale eclettismo ha anche una giustificazione di ordine materiale
visto che le prime fonti di Jesi si trovano nella Collana Viola di
Einaudi, la «Collezione
di studi religiosi, etnologici e psicologici»26:
in essa prospettive differenti e perfino antitetiche sul sacro
rischiavano di apparire come coerenti e organiche, come avvertivano
gli stessi curatori, i quali, nella battaglia culturale nel
dopoguerra italiano, manifestavano opinioni differenti sulla
necessità di orientare il pubblico per arginare l’irrazionalismo
di alcuni libri; mentre De Martino riteneva necessario che ogni testo
fosse introdotto da saggi ‘pedagogici’, per Pavese tale
operazione risultava irritante e invadente27.
Per la prima formazione di Jesi
la questione, che sarebbe riemersa con forza ancora maggiore nella
cultura europea alla fine degli anni sessanta, è fondamentale:
È
come se, appartenente alla generazione che su questi libri si formò,
nel suo lavoro Jesi abbia ereditato e rimeditato alcuni aspetti del
dibattito su una serie di autori ritenuti “pericolosi”, con il
rischio che la profilassi nei loro confronti risultasse
ideologicamente contraddittoria quanto la materia “irrazionale”
da cui ci si voleva difendere28.
In questa fase lo studioso, non ancora
ventenne, pur non avendo in mente quali saranno gli esiti della sua
ricerca e non dominando ancora completamente le sue fonti dimostra
comunque di aver scelto il suo ambito di interesse: il dibattito
degli anni in cui l’Anthropologie
Structurale e altri caposaldi
del Novecento rovesciavano il modo di guardare l’uomo.
1.1.1
Rapporti tra cose
Il saggio teorico Le
connessioni archetipiche
(1958) parte dalla constatazione della «presenza costante di
immagini affini, di “luoghi comuni”» che solcano la storia della
cultura, in particolar modo per ciò che riguarda la tradizione
letteraria popolare e il patrimonio mitico religioso che con questa è
imparentata. Si tratta di «motivi che si ripetono nelle differenti
forme in cui noi veniamo a conoscenza di ciascuna vicenda,
mantenendosi a volte inalterati formalmente, a volte subendo
modifiche relative alla natura apparente dei personaggi ed al
procedere dell’azione»29.
Le varie metamorfosi, a volte così
estreme da rendere irriconoscibile il collegamento tra due elementi
imparentati, sono da mettere in relazione con il ‘regime sociale’
nel quale i racconti prendono forma: in questo modo nella ricezione
attraverso il tempo, quando i legami diretti e conoscibili tra
‘motivo’ e ‘istituto sociale’ si siano persi si apre uno
spazio di «libertà della creazione di ciascun narratore»30.
Nell’impossibilità di cogliere l’origine di un racconto, in ogni
tempo la narrazione modificata può avere una sua ‘attualità’ e
risultare significante per i parlanti e i contemporanei che la
condividono, i quali posseggono le chiavi contestuali per la
comprensione del significato rielaborato.
Su questo presupposto marxiano (la
struttura condiziona la sovrastruttura, la quale si modifica meno
rapidamente della prima), la ricostruzione del processo genetico
delle alterazioni formali e contenutistiche dei racconti mette in
luce forme invarianti («universalità di particolari motivi») che
sono il «risultato di un processo spirituale»31.
Tale universalità per Jesi «risulta chiarificata dal punto di vista
psicanalitico dalle indagini parallele di Jung e Kerényi» i quali
la definiscono in termini di «archetipi» come «automanifestazione
dell’inconscio» di natura collettiva32.
Jung, nel 1924, scrivendo di uno
«spirito primitivo dimenticato» considerava l’inconscio
collettivo come «complesso di immagini, che si esprimono nelle
mitologie di tutti i tempi e tutti i popoli» e che «ogni individuo
riceve in potenza in virtù dell’eredità», in modo tale che «le
immagini mitologiche possono sempre, in modo spontaneo e concordante
ritornare non solo in tutti gli angoli della terra ma anche in tutti
i tempi» in virtù di un «medesimo cervello umano, che funziona nel
medesimo modo ovunque con varianti relativamente piccole»33.
Nel noto libro scritto a quattro mani con Kerényi34
comparivano gli archetipi principali (ombra, vecchio, fanciullo,
madre, fanciulla etc.) che costituirebbero le componenti originarie
del sé di un uomo universale.
Così Jesi scriveva:
La
mia critica ai concetti tradizionali nel campo della mitologia
procede inizialmente dalla constatazione che soltanto le connessioni
fra due elementi possono ritenersi archetipiche. Se, a proposito
della connessione fra tali elementi, si può parlare di una forma
della “partecipazione” di Lévy-Bruhl, non si deve pensare che le
“essenze comuni” in funzione delle quali vengono “sentiti” i
singoli individui, corrispondano alle nostre rappresentazioni di
figure archetipiche. La forma di maggior approssimazione all’immagine
di “essenza comune” è rappresentata dalla natura stessa,
dall’essere di due concetti fra cui sussista una connessione
archetipica35.
Un connessione può avere luogo tra
immagini astratte e concrete, le quali attraverso le relazioni
reciproche creano un senso: si intende qui che è impossibile
separare una immagine dal suo significato, come se l’una fosse
concetto esemplificato e l’altro un concetto astratto.
«Relazione reciproca» vuol
dire, per esempio, che «il concetto ctonico-oracolare è il
significato, il valore dell’immagine del serpente, così come il
serpente è il significato, il valore del concetto
ctonico-oracolare»36.
Questa concezione del simbolo, per cui
significato e significante coincidono nel mito è una costante
dell’intera produzione jesiana che troverà riscontro nella
continua e successiva ripresa del concetto bachofeniano di «simbolo
riposante in se stesso»37.
Ed è una formulazione più articolata di ciò che Sigfried Giedion
affermava quando scriveva che in età preistorica «il simbolo stesso
fu realtà, mezzo di possesso del potere magico, tale da influenzare
direttamente il corso degli eventi»38.
Il tipo di conoscenza che ne deriva è
quello di «creazione fittizia, puramente formale ed estranea al
senso o al non-senso delle connessioni», ma capace di significare la
realtà: l’esame delle connessioni, indipendentemente dal contesto,
può rivelare qualcosa circa la concezione del mondo che esse
esprimono. La capacità cognitiva degli uomini della preistoria
sarebbe dunque caratterizzata da una identità della
conoscenza-espressione come partecipazione all’inconscio
collettivo, in modo tale che in ogni «fenomeno espressivo si ritrova
una personalità umana e una realtà»39.
Secondo
la teoria delle connessioni archetipiche il concetto di spazio-tempo
si presenta nella coscienza dei primitivi successivamente al
frazionarsi dell’inconscio collettivo e in base ad una esigenza di
distinzione e di comparazione tra gli oggetti40
Sottratto alla catena causale il
pensiero, come mostrerebbero le serie prese in esame di motivi
riportati sulla ceramica egizia (piante, animali, battelli, grafismi
geometrici), manifesterebbe una «presa di contatto con il mondo»
espressa mediante «simbolismo reciproco»41,
«ogni elemento è in rapporto con gli altri: lo si può considerare
un significato degli altri o viceversa»42:
una sorta di flusso privo ancora di un «”senso”, di una
direzione»43
che mantiene ogni possibile intellegibilità nei limiti della sola
associazione. Compare qui la stessa precedente definizione di
«affinità elettive decisamente estranee ai rapporti logici» che
viene presentata come ciò che caratterizza il «gioco della
mitologia»44.
In un altro scritto dello stesso periodo
(Studi cosmogonici45)
Jesi descrive come le insegne dei battelli egizi fossero simboli di
clan e segni di nomi, posti in rapporto con divinità locali e
soggetti a diffusione come elaborazioni successive di materiale
«totemico»: elementi formali indissolubili non più compresi
ricevevano nuovo significato in un periodo successivo. Anche qui ciò
che in uno strato arcaico è connesso cambia di segno sulla base di
una riattivazione, e in tal senso la «realtà mitologica» delle
figure divine poteva spiegarsi come «trasposizione costante del
medesimo schema di immagini in innumerevoli “leggende”, quasi che
in ciascuna funzione delle immagini della divinità si rinnovi un
dubbio umano»46.
Le connessioni sono ciò che è
potenzialmente nella «psiche di ciascun individuo» in uno stadio di
latenza che può passare in atto in presenza di una determinante
fisiologica, sotto l’effetto della commozione. Jesi parla qui di
una catena ‘archetipica’ tra ambiente
ritmologico-biotipo-immagini47:
il fenomeno è accostato da Jesi al principio di Pavlov dei riflessi
condizionati ma in assenza di concezione consapevole del rapporto di
causalità da parte degli uomini:
la
connessione archetipica descrive il comportamento psichico
determinato da stimoli sensori condizionatamente alle potenzialità
psichiche di realizzazione delle connessioni stesse, risultanti a
loro volta manifestazioni coscienti di fenomeni inconsci. La
connessione archetipica informa il successivo comportamento
fisiologico: anzi è giusto dire che intuitivamente è esattamente
comprensibile il concetto di connessione archetipica da un punto di
vista dinamico e non statico, come un fenomeno nel suo corso. Si
ricade così nella mitologia vissuta48.
La radicale differenza tra realtà
dinamica indeterminata e successiva strutturazione logica è
sostanzialmente impensabile a causa di una «inevitabile deficienza
del linguaggio riguardo alle cosiddette “rappresentazioni
intuitive”»: la sua descrizione non può che configurarsi come
quella di «uno dei tanti elementi di un meccanismo»49.
Ma continua Jesi, sarebbe errato leggere
tale teoria «trasferendo sul piano metafisico la natura intrinseca
dell’adattamento» ovvero l’equilibrio di un sistema complesso
uomo-ambiente: se teniamo conto che siamo partiti da Frobenius,
questo vuol dire che dal cuore di un pensiero ad alta significatività
metafisica Jesi cerca di tradurre elementi archetipici in componenti
di un sistema nervoso centrale su basi genetiche50.
1.1.2 Condizionamenti,
indizi
Se non si può negare una certa oscurità
nell’argomentazione di questi primi testi, in un inedito dal titolo
l’Archeologia e i riflessi
condizionati la teoria e i
suoi presupposti sono riformulati in modo più chiaro e diretto:
Pavlov
aveva spiegato il fenomeno dei riflessi condizionati con la presenza
di una specie di grande circuito: dalle superfici sensibili partono
degli stimoli che confluiscono a centri d’attenzione (quasi campi
magnetici) posti nei grandi emisferi del cervello; di qui, altre
correnti muovono in varie direzioni, provocando azioni in apparenza
non connesse con gli stimoli (apparizione d’una luce: stimolo che
parte dall’occhio, giunge al centro di raccolta, mette in moto una
corrente che suscita la salivazione)»51.
Dando prova di un approccio che sembra
anticipare un procedimento ermeneutico di natura indiziaria52,
Jesi afferma di voler trasporre il principio per via analogica
nell’ambito degli studi archeologico-antropologici, nel senso che
«anche l’uomo in presenza di un certo stimolo sensorio (una
temperatura, un dolore, una difficoltà fisica), che condizionava uno
stato di benessere [...] era portato a ad associare l’idea di tale
sensazione a quella della sua conseguenza benefica»53.
La teoria della connessioni
archetipiche, «basandosi sulle conquiste della moderna psico-analisi
così come della fisiologia, si ripromette di indagare il fenomeno
del pensiero e dell’attività umana, partendo dello studio delle
creazioni di civiltà»54:
l’analisi della cultura materiale è il sintomo, la traccia o
l’indizio tale da permettere allo scienziato di risalire alla
«scintilla creatrice» che presiede alle varie fasi di realizzazione
dei fenomeni culturali. Questa è la «commozione» a partire dalla
quale si verifica «la connessione di due immagini, le quali erano
latenti nella psiche» e che, in questo testo, sono esemplificate con
figure
tratte da miti, leggende, favole: uomini e animali, leone e sole,
sangue e vita, primavera e nascita, autunno e morte. Poiché l’essere
umano «associa di volta in volta l’una o l’altra immagine a
seconda delle condizioni materiali in cui si trova» una cultura
agricola «giungerà a connettere il nascere e il morire della natura
con la nascita e la morte di un dio»55.
Jesi afferma l’inevitabilità
nell’essere umano della domanda metafisica di senso, che anni dopo
chiamerà fame di mito
giungendo a considerare la
mitopoiesi come fatto costitutivo della cultura umana in tutte le sue
fasi, compreso quelle più avanzate e recenti:
Ma
perché [un popolo] non può accontentarsi di mangiare pane di grano
senza collegare la nascita di un grano a quella di un dio? [...]
Perché la connessione dell’elemento materiale – il grano – con
l’immagine, la nascita e la morte del dio – porta l’uomo ad un
equilibrio fisico e psichico quasi assoluto, ad uno
stato di benessere primitivo la
cui mancanza determina lo squilibrio e l’angoscia56.
Il bisogno di armonia psichica e fisica
è necessario per il mantenimento di un equilibrio nella conduzione
materiale dell’esistenza singola e collettiva, un «pieno sviluppo
della vita», per garantire il quale primitivi, antichi e moderni,
mettono in atto analoghe risorse da un punto di vista formale,
intrecciate tra di loro da un punto di vista contenutistico. In
questo senso lo sviluppo straordinario della capacità simbolica
(«abisso tra l’animale e l’uomo») è considerata in termini
antropologici come la straordinaria specificità dell’essere umano,
rendere ragione della quale è il compito della scienza che verrà.
A confermare questa linea interpretativa
è un testo del 1966, il saggio divulgativo L’origine
dell’uomo
(scritto per «Storia
illustrata») che ripercorre la teoria dell’evoluzione, in senso
fedelmente darwiniano, da Talete a Oparin, e corredato di una
bibliografia aggiornata. Qui l’uomo, già in epoca preistorica,
appare caratterizzato dalla sua «capacità simbolica», con
esplicito riferimento a Cassirer, coincidente con una «fase della
graduale complessificazione degli organismi considerati
dall’evoluzionismo»57.
Facendo riferimento alle raffigurazione pittoriche del paleolitico, a
cui i numeri dell’AIEP dedicavano ampio spazio, le immagini
parietali delle grotte di Altamira e Lascaux sono descritte come
capaci di attraversare tempi e generazioni: «ogni generazione
aggiungeva figure, e tutte le figure – quelle tracciate dagli
antenati, dai padri e dai figli – vivevano simultaneamente della
medesima vita sacrale»58.
Per concludere con la grazia del
narratore consumato:
Ma
l’evoluzione era in atto, e con essa il fenomeno della conoscenza.
Se in un’epoca primordiale l’uomo aveva potuto dire “in me si
pensa”, giunse un giorno in cui egli disse “Io penso”. Ed
allora egli prese coscienza di sé, e invece di abbandonarsi alle
emozioni che gli giungevano dal mondo esterno, cercò di imporsi su
quel mondo: di imporvi la sua volontà59.
1.2.4 Chiarimenti
La prima produzione jesiana presenta
diversi elementi di criticità per i riferimenti e le teorie che vi
confluiscono, le quali oltre a essere di complessa interpretazione
vengono rielaborate talvolta in modo arbitrario. Da questo punto Jung
è emblematico: più che essere oggetto di studio sistematico è una
sorta di pretesto vicino ai propri interessi per disporre le proprie
proposte teoriche entro un quadro di riferimento coerente. Tanto più
se si pensa che su di lui l’accusa di cripto-fascismo pesava in
modo significativo, congiunta alla critica di oscurità.
Il concetto junghiano di archetipo nella
sua fase più matura, prevede una distinzione tra archetipo e
immagine archetipica, e conseguentemente l’idea di una trasmissione
della potenzialità rappresentativa e non della rappresentazione tout
court60,
in modo tale da giustificarne il dispiegamento nella storia: ancora
nel 1973 Jesi attribuisce alle «strutture psichiche universali e
identiche»61
una sostanziale affinità da un lato con le dottrine della destra
tradizionale che vedono negli elementi primordiali una sostanza
metafisica e sacrale e dall’altro con lo strutturalismo di
Lévi-Strauss, per il quale archetipali sarebbero le «epifanie
obbligate delle norme di logica interna dei miti»62.
Tale interpretazione risulta strumentale
nella misura in cui entrambi gli autori divengono studiosi di un
‘mito’
impossibile da conoscere, da contrapporre a Kerényi che nella
mitologia
ha indicato, invece, ciò che è conoscibile in quanto umano e in
quanto oggetto di una possibile comprensione ‘commossa’.
Determinante in Jesi sarebbe l’influenza indiretta
che la ricezione di Jung ha esercitato sul surrealismo, con la
concezione della conoscenza in quanto «stato di sogno»63,
e sul Benjamin dei Passages64.
In tale senso autori-fonte, con un procedimento che risulterà
tipico, vengono sostanzialmente ridotti a ‘formule’ che potranno
essere utilizzate in senso originale e non senza consapevole
arbitrarietà65.
Per cercare di mettere ordine converrà
chiarire alcuni punti, a costo di anticiparli. A partire dalle sue
fonti e poi nel suo metodo, Jesi manifesta la contraddittoria volontà
di scegliere un procedimento scientifico e antimetafisico, salvo poi
declinarlo con un antistoricismo che altri chiamerebbero
irrazionalista. In ciò Jesi riflette la cultura di diversi suoi
maestri, appartenenti a una fase degli studi sul sacro in cui –
scrive Dubuisson – una serie di «pregiudizi primitivisti» si
fonde con altri «riflessi intellettuali», quali «l’ossessione
costante, in parecchi studiosi della fine del secolo scorso, di
mettere insieme delle arbitrarie esperienze psicologiche originarie,
la potenza dell’immaginazione, l’origine delle religioni e di
meccanismi del linguaggio, come se questi elementi disparati
costituissero un insieme omogeneo»66.
Ancora più radicale è la
critica, avanzata da Edmund Leach a tutte le posizioni accomunate da
un «postulato ‘vichiano-roussoviano’» ovvero l’idea che la
poesia sgorghi naturalmente nell’uomo in quanto espressione
immediata di emozioni costituendo la base del processo di
«simbolizzazione» che sarebbe la dote specifica dell’Homo
sapiens:
tale postulato
ammette
una progressione evolutiva dell’uomo dallo stato naturale, senza
artifici né linguaggio, allo stato culturale, con artifici e con
linguaggio, ma scopre la causa efficiente di tale progresso nella
stessa potenza inventiva della natura umana. Ma ciò equivale a dire
che l’attività intrinsecamente razionale dell’astratta
previsione immaginativa potrebbe essere l’attributo di una creatura
che non abbia ancora quello strumento primario per simili operazioni
mentali umane che è il linguaggio.
Bisogna dunque presupporre
come specifici del processo evolutivo una
serie
di mutamenti che agli inizi ebbero luogo casualmente
[…] e che
in seguito in qualche modo divennero una caratteristica geneticamente
determinata, condivisa da tutti i membri della specie umana in
seguito all’adattamento selettivo. Uno sviluppo evolutivo di questo
tipo è un processo storico totalmente diverso da quello
dell’invenzione cosciente67.
Si può individuare il tratto comune di
queste posizioni nel mito dell’origine, che un teorico del mito in
senso estetico-antropologico come Hans Blumenberg riscontra ancora
nell’opera di Cassirer. Questi,
nonostante il progetto di abbattere la dicotomia tra mythos
e logos,
non abbandona una prospettiva evolutiva in cui il mito, filosofia e
scienza si presentano allineate in una genealogia progressiva. La
concezione “ingenua” del mito come ‘essere
dell’origine’
deve essere secondo Blumenberg
rovesciata con l’interesse non per la ricezione,
storicamente situata di ogni mito:
le «teorie
sulle origini dei miti sono oziose [...], in genere noi non sappiamo
niente delle origini»68.
Jesi rimane affascinato dalla vertigine
dell’originario fino a quando – questa è la tesi che intendo
mostrare – a metà degli anni settanta matura uno stile saggistico
con il quale ha rinunciato a
essere storico delle religioni e teorico dello spirito umano:
attraversando il dibattito sullo strutturalismo e approdando a una
critica letteraria che è anche critica dell’ideologia. Mi
sembra che il ‘primo’ Jesi possa essere considerato come studioso
ancora in transito tra la scienza del mito ‘classica’ gravata di
ipotesi metafisiche e una più complessa costellazione di scienze
storiche e della cultura che si andava definendo in quegli anni con
progressive specializzazioni, la cui matrice è principalmente
l’antropologia: benché estremamente erudito il
giovane studioso non può che apparire oggi estremamente avventuroso
nelle sue interpretazioni, nella quali non mancano forzature
interpretative e imprecisioni; il che è spiegabile dal fatto che i
dati gli servivano per formulare teorie antropologiche e psicologiche
di più ampio respiro.
Negli anni settanta con l’adesione a
un approccio al mito storico-storiografico, gli elementi velleitari e
capziosi sarebbero scomparsi, risolti grazie a una certa disciplina
della scrittura, prima intellettualistica e barocca; ma anche grazie
a una serie di studi e letture che hanno impresso una differente
direzione alla sua attività, in un ambito quale quello delle
trasformazioni del mito nella cultura moderna.
1.2.5
Il rapporto con lo
strutturalismo
In uno dei primi tentativi di
individuare le influenze dell’opera di Jesi, in un dolente articolo
scritto a ridosso della prematura scomparsa, Sergio Moravia scriveva:
Una
delle porte aperte nel nostro paese a un certo tipo di approccio alla
dimensione del sacro l’ha spalancata proprio Jesi: negli anni
Sessanta, quando in Europa dilaga lo strutturalismo e tutti (o quasi
tutti) giurano sulla sofistica delle modellistiche logico-matematiche
di Lévi-Strauss, Jesi continua a guardare a un’altra metodologia,
ad un un’altra procedura, che si apriva verso l’ermeneutica, si
agganciava a Mircea Eliade per poi tornare ai prediletti Kerényi e
Dumézil69.
Se molto di questo è vero, il giudizio
sembra eccessivamente tranchant
e dettato dalla mancanza di prospettiva: è vero che Jesi criticò lo
strutturalismo come genere codificato e lo stesso Lévi-Strauss70,
ma è altrettanto vero che le opere del maestro francese, in
particolare i Mythologiques,
influenzarono molto e in senso fecondo un’intera generazione di
studiosi, tra cui Jesi71.
Già il Lévi-Strauss di Antropologie
Structurale (1958) con lo
spostamento dello studio dei fenomeni linguistici coscienti a livello
delle «infrastrutture incoscienti», facendo proprio il metodo della
linguistica, metteva alla base delle sue analisi le relazioni tra i
termini di un sistema. Anche nelle opere tarde di Jesi – nelle
quali rifiutando la formalizzazione matematica e dubitando della
possibilità di individuare il sistema trascendentale di
funzionamento dell’ésprit72
– il paradigma
ricombinatorio è fondamentale come elemento delle genesi di nuovo
senso: ogni cultura elabora il proprio sistema di classificazione
della realtà basandosi su regole che danno vita a un’infinita
varietà di rappresentazioni incrociando elementi invarianti, che si
trasmettono nel tempo e costituiscono la sua storia. Le critiche che
lo storicismo marxista ha avanzato verso Lévi-Strauss accusandolo di
aver neutralizzato la storia, rifiutato contenuti e negato valore ai
fatti che nella loro contingenza sarebbero inferiori alla forma73,
sembrano oggi eccessivamente severe. A conferma di ciò sta il
connubio di strutturalismo e marxismo: a proposito del «potere
polemico del metodo strutturale, derivato da Saussure, e applicato
fuori della linguistica, soprattutto da C. Lévi-Strauss e J. Lacan»
valgano le parole di Roland Barthes. «La descrizione sincronica
delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa
armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la
Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto all’idea di
Natura?»74.
Nelle Mythologiques
(1964-1971) Lévi-Strauss ha
proposto un’analisi dei patrimoni mitologici in modo che sia
possibile tornare da un certo mito verso un altro da cui si erano
prese le mosse: l’analisi strutturalista permette cioè di smontare
e rendere criticamente
apprezzabile i miti presentandoli in forma di elementi nel loro stato
disaggregato. Si tratta del procedimento inverso all’uso politico
dei miti, il caso estremo di manipolazione di un materiale
linguistico o iconografico: in esso è ravvisabile l’intervento in
virtù del quale elementi sintagmatici sono resi operativi dalla
violenza esecutiva che separa il linguaggio dalle pratiche sociali in
cui era inserito in un determinato punto della sua storia e diviene
altro, simbolo caricato di un aumentato potere performativo in un
momento della sua ricezione75.
Moravia ha ragione nel sostenere che
«Jesi non era nato per limitarsi a divulgare il pensiero altrui»76:
nella sua rielaborazione ha cercato di rendere ‘caldo’,
storicamente dinamico, quello che Lévi-Strauss ha inteso raffreddare
fino a ipotizzare che dietro a una serie mitologica si potesse
individuare il mito come stuttura
nella forma fantasmatica
dell’algebrizzazione.
Se per quanto riguarda il mito antico si
ritrova in sintonia con Dumézil, la cui opera non a caso
Lévi-Strauss considerava analoga alla propria per l’approccio
storico-morfologico, Jesi ha verticalizzato in senso diacronico gli
elementi statici, orizzontali e sincronici che lo strutturalismo
illustra nella loro disponibilità, in conformità alle indicazioni
di de Saussure che
vedeva nella linguistica tanto lo studio della coesistenza simultanea
dei fenomeni, quanto il mutamento dei valori da una fase storica
all’altra: su questa via Jesi ha sviluppato l’interesse per il
mito, prima con tentativi teorici e poi con un modello minimo che
potesse essere operativo per cogliere la continuazione della
mitopoiesi nella storia della storiografia, nella letteratura e nella
costruzione degli immaginari culturali tramite la monumentalizzazione
dei documenti e la canonizzazione dei saperi.
Interviene poi un ulteriore elemento a
mutare l’orientamente generale del lavoro intellettuale di Jesi:
un’umanesimo intensamente sentito che diviene quasi un ‘misticismo
senza religione’ a partire dal quale egli ha trasformato la
‘commozione’ in una teoria dell’immaginario fino a delineare un
naturalismo che pare il portato della riflessione sulla propria
origine ebraica e dall’influenza di Benjamin, sia per il modo
militante di intendere la critica che per l’affinità con l’idea
della redenzione profana e della cultura come utopia77.
Nel suicida di Port-Bou lo studioso torinese poteva trovare un
modello per l’appropriazione e la restituzione in chiave personale
dei suoi interessi più disparati, ma anche il coraggio di scegliere
collegamenti e riconoscere analogie, non senza una certa
arbitrarietà78.
Per questo Jesi, come aveva scritto un editor americano nel
respingerne un testo, può apparire «estremamente soggettivo e [...]
difficile da seguire»79.
1.2.5.1
Fenomenologia della cultura
Quando
ho cominciato a studiare materiali mitologici, simboli, prove
metodologiche di scienza del mito alle fine degli anni ‘50 i testi
di Jung mi emozionavano moltissimo, più di quelli di Kerény.
“Inconscio collettivo”, “archetipo”, “mandala”, mi
sembravano parole di sapienza. [...] i miei primi scritti in questo
ambito (...) sono per molti aspetti junghiani, anche se fin da allora
provavo un certo disagio verso l’”archetipo” come forma in cavo
di una figura a tutto tondo, e cercavo di rimediarvi con il modello
delle “connessione archetipiche”: costanti – direi oggi –
linguistiche,
norme obbligate della composizione anziché figure organiche di una
galleria di ritratti80.
Così l’autore si
presentava in uno degli ultimi scritti: prendendo in considerazione
l’opera giovanile in questa prospettiva, gli elementi datati
sono
comunque minori rispetto alle istanze di innovazione che emergevano.
Per Bidussa le connessioni archetipiche sono elementi per la
«costruzione di sistemi di classificazione simbolica basati su una
complementarità o anche un’opposizione resi paradigmatici dalla
loro riproposizione costante»81,
e in questo senso andrebbero prese in considerazione nel contesto
della svolta semiotica degli studi della cultura, sulle indicazioni
dello stesso Jesi rispetto all’importanza del formalismo82.
L’invarianza
dell’iconografia, ottenuta dalla serie di trasformazione e
combinazioni configura una idea di «sovrapposizione» come «via
intermedia tra persistenza e ripetizione»83
che induce a formulare ipotesi sulla porosità dei tempi nella loro
stratificazione, ovvero forniscono elementi per la comprensione delle
modalità di «reiscrizione del sapere tradizionale dopo che si sia
persa la sua origine», ovvero la rielaborazione dei patrimoni
mitologici in ambito letterario e il loro inserimento nei differenti
contesti ideologici «che prepara la questione dell’uso politico
dei materiali sacri e mitologici». In questo senso la teoria
giovanile contiene le condizioni per lo sviluppo di una fenomenologia
della cultura e anticipa la riflessione sulla metastoria84:
Le
connessioni archetipiche sono solo il primo passo verso una
grammatica dell’immaginario, non forniscono la sua sintassi. Perché
questo sia evidente, o almeno ricostruibile, occorre che si
considerino altri documenti che si determini una serie, o comunque si
correlino tra loro più serie, che si valuti come quelle connessioni
archetipiche agiscano all’interno di materiali verbali e
iconografici che si strutturano [...] con l’impalcatura del mito.
Ovvero con qualcosa che non è più il mito, ma che non è nemmeno la
sua memoria o il suo significato. Questo qualcosa che ancora non ha
un nome, che non giunge ancora a concettualizzarsi è “la macchina
mitologica”85.
In altri termini studiare il mito
diventa oggetto di interesse per una storia della storiografia tale
da cogliere la vicenda dialettica di demitologizzazione e
rimitologizzazione che caratterizza la modernità: all’interno di
essa il mito assume un ulteriore valore di nostalgia e concide con la
mitizzazione del mondo antico nella storia culturale europea, pensato
e presentato nelle storiografie nazionali come fondativo e migliore
del presente, corrotto e decaduto. «La dimensione “altra” del
mito determinata dalla sua assenza» è ciò che costituisce il suo
fascino, che risiede nel suo «campo magnetico»86.
________________________________________________
________________________________________________
1
F. Jesi, L’origine
dell’uomo,
cit., p. 95.
2
Manoscritto di Jesi
datato 10 febbraio 1961; riportato in A. Cavalletti, Il
metodo della scrittura indiretta,
in K, pp. 216 ss.
3
Foglio sparso e senza titolo, risalente ai primi anni sessanta.
Archivio di famiglia.
4
Così il frontespizio: F. Jesi, Direttore dell’archivio
internazionale di Etnografia e preistoria, Le
ceramica egizia dalle origini all’età
tinita. Con 32 fotografie -
29 delle quali riproducono oggetti inediti - e 14 disegni. Con un
capitolo di Pierre Gilbert. Professore di Egittologia all’Università
di Bruxelles. Prefazione di Boris de Rachewiltz, S.A.I.E., Torino,
1958 (CE).
5
M. Cottone, Scienza del mito
e critica letteraria: conoscere per composizione,
in «Studi filosofici», n. XVI-XVI, cit., p. 229.
6
R. Ferrari, Saggio e romanzo
in Furio Jesi, cit., p. 21.
7
Boris de
Rachewiltz, studioso e aristocratico, celebre per una discussa
traduzione del cosiddetto Libro
dei morti
e marito di Mary Pound, figlia dello scrittore.
8
L. Frobenius, Storia della
civiltà africana (1933),
ed. it. Einaudi, Torino,
1950.
9
B. De Rachewiltz, Prefazione,
in CE, p. 9.
10
Ivi,
CE, p. 10.
11
Il “paideuma” indica «la capacità di abbandonarsi
spiritualmente e in piena “realtà” a un altro mondo fenomenico,
poiché l’ometto o l’uomo si lasciano improvvisamente commuovere
da un fenomeno fuor delle loro relazioni naturali e delle loro
cagioni evidenti». L. Frobenius, Storia
della civiltà africana,
cit., pp. 52-53.
12
F. Jesi, Frobenius,
voce firmata in Grande
dizionario enciclopedico,
Utet, Torino, 1968, vol. VIII, pp. 431. Nella stessa voce l’autore
sottolinea la vicinanza teorica con la concezione del simbolo in
ambito estetico di George, Gundolf e Klages, e la grande stima che
l’imperatore Guglielmo II aveva di lui, «nel quale cercava un
appoggio scientifico alle proprie elucubrazioni misticheggianti»
(p. 430).
13
F. Jesi, inedito della serie Mito
e linguaggio, in «Cultura
tedesca», cit., p. 84, c. n.
14
CE, p. 10, c. n.
15
CE, p. 12.
16
CE, p. 17.
17
CE, p. 21.
18
L. Lévi Bruhl, Les fonctions
mentales dans les sociétés inférieures
(1910); La mentalité
primitive (1922); L’âme
primitive (1928): è il caso
di ricordare che Malinowski, Cassirer e Lévi-Strauss, a cui Jesi si
sarebbe rifatto successivamente, criticarono apertamente questa
idea.
19
CE, p. 22.
20
Cfr. Jesi nel 1979 proprio su Frobenius, CD, pp. 14-17.
21
E. De Martino, Prefazione
(1965)
in A. E. Jensen, Come
una cultura primitiva ha concepito il mondo
(1948), ed. it. Bollati, Boringhieri, Torino, 1992, p. 10.
22
Ivi,
p. 11.
23
Cfr. MM, p. 36 ss. Si veda la sintetica ricostruzione che Marcello
Massenzio, sulla scorta dell’opera di De Martino, propone in Sacro
e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine,
Franco Angeli, Milano 1997, pp. 24-25. L’epoca moderna degli studi
è inaugurata dal Il sacro di
Otto (1917) e caratterizzata dalla definzione di un’«autonomia
categoriale del sacro», del mitico e del simbolico di ordine
esistenziale nel quadro di un movimento complesso di influenze,
convergenze e differenze di provenienze culturali, metodi e
prospettive in cui trovano spazio etnologia (Frobenius, Jensen,
Malinowski, Leenhardt), fenomenologia (R. Otto, Kerényi, Eliade,
Van der Lew, W. F. Otto), sociologia (Lévi-Bruhl, Lévi-Strauss,
Callois), filosofia (Cassirer, Bergson, Bachelard, Gusdorf),
psicologia (Jung, Neumann).
24
Per il rapporto tra Jesi e la storia delle religioni, in particolare
per quanto riguarda l’ambito italiano cfr. P. Angelini, Il
guardiano della soglia,
in «Studi filosofici», XIV-XV, 1991-2, cit., pp. 222-3: almeno
fino ai primi anni settanta Jesi
«evita
di prendere posizione» disertando il dibattito italiano in
particolare le posizioni di Brelich, De Martino; cfr. N. Spineto,
Kàroly
Kerényi e gli studi storici religiosi in Italia,
in Studi
e materiali di storia delle religioni,
69, 2003, pp. 385-410:
se già Kerényi, con il suo stile poetico ed evocativo, metaforico
e di complessa intepretazione in un clima storicistico come quello
italiano era considerato un «dissidente» (Pettazzoni), Jesi,
autodidatta, privo di titoli e filiazione accademica,
antistoricista, critico letterario e di ancora più difficile
lettura non poteva avere migliore fortuna.
25
V. J. Propp, Le
origini storiche dei racconti di fate (1946),
ed. it, Einaudi, Torino, 1949 poi Bollati Boringhieri Torino, 1972.
26
Oltre a Frobenius e Propp Jesi
citava spesso i Prolegomeni
allo studio scientifico della mitologia
di Jung e Kerényi, la Religione
greca di Petazzoni.
Cfr. ELM, p. 21.
27
Cfr. MM, pp. 36 ss.: «Parlare
di “mentalità primitiva” come di “facoltà creatrice”
siginificava far puntare il fucile non solo a De Martino, ma anche a
Bianchi Bandinelli»; cfr. C. Pavese - E. De Martino, La
collana viola. Lettere 1945-1950,
Bollati Boringhieri, Torino, 1991, con Introduzione
di P. Angelini; di Angelini vedi anche: La
collana viola, in AA.VV.,
Studi antropologici italiani
e rapporti di classe, Franco
Angeli, Milano, 1980.
28
R. Ferrari, Saggio e romanzo
in Furio Jesi, cit. pp. 34
ss.
29
F. Jesi, Le connessioni
archetipiche, in «Archivio
internazionale di Etnografia e Preistoria», vol. I, 1958, ed.
S.A.I.E., Torino, pp. 35.
30
Ivi,
p. 36.
31
Ivi,
p. 37.
32
Ibidem.
33
G. G. Jung, Prefazione
(1924) a La libido. Simboli e
trasformazioni (1911), ed.
it. Bollati, Boringhieri, Torino, 1965, p. 10.
34
C.G. Jung - K. Kerényi, Prolegomeni
allo studio scientifico della mitologia
(1942), Bollati Boringhieri, Torino, 1972,
pp. 224-5, (che Jesi conosceva nella edizione
Einaudi del 1948).
35
F. Jesi, Le connessioni
archetipiche, cit., p. 37.
36
CE, p. 19.
37
LM, p. 26 dove affermava la concezione di un simbolo significante
che esclude la trascendenza, non rinviando ad alcun senso ulteriore
se non a quello della sua immanenza.
38
S.
Giedion, L’eterno
presente. Uno studio sulla costanza e sul mutamento: vol. 1. Le
origini dell’arte,
trad. it di
F. Jesi,
Feltrinelli,
Milano, 1965, p. 94. A p.
83 Sartre (L’imaginaire)
è indicato come una delle fonti per una teoria autorefereziale del
simbolo.
39
F. Jesi, Le connessioni
archetipiche, cit., p. 38.
40
F. Jesi, La nozione di
spazio-tempo nella lingua egizia classica
(1959), p. 2. Archivio privato. Testo inedito conservato in più
versioni, di cui una inglese inviata al «Jounal of Near Eastern
Studies».
41
Ivi,
p. 39.
42
CE, p. 19.
43
F. Jesi, Le connessioni
archetipiche, p. 40.
44
Ivi,
pp. 40-41; cfr. CE, p. 17-19.
45
F. Jesi, Studi
cosmogonici,
in «Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria», Torino,
vol. I, 1958, ed. S.A.I.E., Torino, pp. 46-47. Cfr. 54 ss.
46
Ivi,
p. 56.
47
Ivi,
p. 55.
48
F. Jesi, Le connessioni
archetipiche, cit., p. 37;
cfr. p. 42-43.
49
Ivi,
p. 43-44.
50
Ivi,
p. 44.
51
F. Jesi, L’archeologia
e i riflessi condizionati,
dattiloscritto contenuto nel raccoglitore n. 4 dell’Archivio
privato di materiali risalenti al 1958-60, p. 2. Impossibile
risalire alla destinazione dello scritto.
52
«Un archeologo in azione ricorda quello Sherlok [sic] Holmes che si
riduceva a studiare la composizione delle ceneri di sigarette per
scoprire il nome dell’assassino: non vi è mezzo di indagine che
sfugga al suo lavoro», ivi, p. 3. Cfr. C. Ginzburg, Miti,
emblemi, spie. Morfologia e storia
(1986), Einaudi, Torino, 2000, pp. 158 ss.
53
Ivi,
p. 3.
54
Ivi,
p. 3-4.
55
Ivi,
p. 4.
56
Ivi,
p. 4-5.
57
F. Jesi, L’origine
dell’uomo,
in «Storia illustrata», anno XVI, n. 100, Milano, marzo 1966, pp.
94 ss. Il saggio affronta anche le implicazioni ideologiche del
darwinismo, connesse agli echi del noto processo Scopes (il
cosiddetto Scopes Monkey
Trial che
si svolse nel 1925 in Tennessee) e alla discussione in ambito
cattolico (Pio XII, Humani
generis, 1950).
58
Ivi,
p. 95. Cfr. S. Giedion, L’eterno
presente, vol. 1, cit., p.
4: «La ragione per cui il simbolo compare così presto, prima
ancora dell’arte, risiede nella natura stessa del pensiero
dell’uomo. Il simbolo fu l’arma umana più efficace per
sopravvivere a un ambiente ostile. In nessun campo l’immagine
dell’uomo preistorico si mostrò attiva quanto nell’invenzione
di forme simboliche».
59
Ivi,
p. 96. Jesi ri rivolge al pubblico non necessariamente colto di una
rivista come «Storia illustrata».
60
Cfr. anche la Prefazione
(1972) di Mario Trevi ai
Prolegomeni allo studio
scientifico della mitologia,
ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1972, p. 6: «Si tratterà
piuttosto di mostrare come nella natura puramente formale
dell’inconscio si possano reperire le matrici universali dei temi
mitologici. [...] Il mito non è per Jung l’archetipo, è bensì
il prodotto del suo operare».
61
M, p. 88-89. La fonte citata è: C. G. Jung, La
libido: simboli e strasformazioni,
ed. it. Torino, Einaudi, 1965.
62
M, p. 89.
63
G. Didi-Hubermann, Storia
dell’arte
e anacronismo delle immagini,
cit. p. 109.
64
W. Benjamin, I «passages»di
Parigi, ed. it. Torino.
Einaudi, 2007, pp. 432 sg (la sezione Città
di sogno e casa di sogno, sogni a occhi aperti, nichilismo
antroplogico, Jung); cfr. G.
Cuozzo, L’angelo
della melancholia, cit., p.
212.
65
Ad esempio ‘junghiano’ è il passaggio che Jesi sintetizzava con
l’epressione più volte ricorrente «dall’ in me si pensa»
all’«io penso» M, p. 69; cfr. anche Le
origini dell’uomo,
cit., p. 96.
66
D. Dubuisson, Mitologie del
XX secolo, cit. p. 48.
67
E. Leach, Natura/cultura,
in Enciclopedia Einaudi,
Torino, 1980, vol. 9, pp. 762-763.
68
H. Blumenberg, Elaborazione
del mito, cit., p. 72; su
Cassirer cfr. pp. 78 e 212.
69
S. Moravia, Jesi,
l’interprete
del mito, «Tuttolibri» de
«La stampa», Torino, 1980, p. 4.
70
In particolare M, pp. 87 ss. e MM, pp. 98, 352.
71
L’ammissione di Jesi del debito nei confronti del maestro francese
è confinata in un testo dalla pubblicazione postuma, Bachofen
(B), p. 61.
72
Questa la critica che lo Jesi dei Materiali
mitologici (1979)
avanza verso lo
strutturalismo.
73
A. Schmidt, La
negazione della storia,
(1969) ed. it. Milano 1972. Cfr. S. Moravia, La
ragione nascosta. Scienza e filosofia in Cl. Lévi-Strauss,
Firenze, Sansoni, 1969; F. Remotti, Lévi-Strauss.
Storia e struttura,
Torino, Einaudi, 1971;
74
R. Barthes, Introduzione
(1959-60) a Il grado zero
della scrittura (1953), ed.
it. Lerici, Milano, 1960, p. 16-17.
75
J. -P. Faye, Violenza,
in Enciclopedia Einaudi,
vol. XIV,
Torino, 1981, pp. 1098 ss.
76
Ibidem.
77
Nell’Archivio di Jesi vi sono pagine autografe sulla critica come
«battaglia» risalenti al periodo 1958-61 che inducano a ritenere
che già allora l’influenza fosse molto forte: cfr. W.
Benjamin, La tecnica del
critico in XIII tesi, in
Strada a senso unico. Scritti 1926-1927,
(1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1983, p. 28). «I. Il critico è
stratega nella battaglia letteraria; II. Chi non sa prendere partito
taccia; III. Il critico non ha a niente a che spartire con
l’interprete di passate epoche artistiche; IV. La critica deve
parlare la lingua degli artisti. Perché i concetti del cénacle
sono parole d’ordine. E solo nelle parole d’ordine risuona il
grido di battaglia; V. Bisognerà sempre sacrificare l’obiettivià
allo spirito di partigiano, se la causa per cui ci si batte lo
merita.; VI. La critica è una questione morale. [...]; VII. Per il
critico i giudici d’appello sono i suoi colleghi. Non il pubblico.
E tanto meno i posteri; VIII. I posteri dimenticano o esaltano. Solo
il critico giudica al cospetto dell’autore; IX. Polemica significa
stroncare un libro in base a un paio di sue frasi. Meno lo si è
studiato meglio é. Solo chi sa stroncare sa fare della critica; X.
La vera polemica si lavora un libro con lo stesso amore con cui un
cannibale si cucina un lattante; XI. Il critico non conosce
l’entusiasmo per l’arte. L’opera d’arte è in mano sua,
l’arma sguainata nella battaglia degli spiriti; XII. L’arte del
critico in nuce: coniare slogan senza tradire le idee; XIII. Il
pubblico deve sentirsi sempre smentito e sentirsi ugualmente
rappresentato dal critico».
78
In uno scambio epistolare con Raffale
Pettazzoni, Jesi aveva sottoposto alcune sue ipotesi al maestro in
merito alla figura di Bès, ricevendo come risposta le seguenti
indicazioni: «Il suo argom. è interessante, se
riuscirà a provarlo -
Quanto all'onnisc. di Bès, non mi pare abbia nulla a vedere con
l'argomento», cit. in M. Gandini, Raffaele
Pettazzoni negli anni 1958-1959,
in «Strada maestra», n. 65, 2° semestre 2008, Quaderni della
Biblioteca ‘G. C. Croce’, S Giovanni in Persiceto, Bologna, p.
36.
79
«I am convinced that this article is not ready for pubblication.
The treatment appears extremely subjective and the language
difficult to follow». Lettera a F. Jesi di K. C. Seele, editor del
«Journal of Near easter studies», 2 luglio 1960, con la quale si
richiedeva una differente versione dell’articolo Expressions
of space and time in middle egyptian.
80
F. Jesi, Così Kerényi mi
distrasse da Jung,
(auto)intervista su un
itinerario di ricerca, in
«Alias», n. 30, luglio 2007, p. 21 (Testo inedito parzialmente
pubblicato in MM, pp. 365, 367).
81
D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica. A
proposito di
Pasque di sangue e
del «mestiere di storico»,
in Vero
e falso. L’uso
politico della storia,
(a cura di M. Cafiero e M. Procaccia), Donzelli, Roma, 2008, p.
154.
82
Ibidem;
cfr. J. M. Lotman e B. A. Uspenskji, Ricerche
semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’Urss,
Einaudi, Torino, 1973.
83
Ivi,
p. 155.
84
Cfr. C. Miglio, Metastoria,
in M. Cometa, Dizionario
degli studi culturali, (a
cura di R. Coglitore, F. Mazzara), Meltemi, 2004, Roma, pp. 272-282
(anche in
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/metastoria.html).
85
D. Bidussa,
Macchina mitologica e indagine storica, cit.,
p. 155-156.
86
Ivi,
p. 160.