martedì 22 gennaio 2013

Sugli scritti giovanili di F.J.


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Se penetriamo nelle grandi caverne, osserviamo gli affreschi meravigliosi che colmano le pareti, ci soffermiamo sulle antiche testimonianze di devozione verso i morti, non possiamo sottrarci ad un’emozione profonda e a un sentimento di incondizionata ammirazione.




La commozione che coglie gli uomini di oggi di fronte alle opere dei loro più remoti predecessori è la forza viva che consente all’uomo di riconoscere se stesso, di là dalle barriere del tempo1.

Tutto quanto io ho scritto è poesia. Poesia, infatti, significa porsi in contatto mediante le parole, o le note, i colori ecc, la bellezza. Come è possibile farlo? Solo amando. Ma in particolare, amando e facendo la cronaca del proprio amore. Per riuscirci, occorre invocare l’aiuto di una forza estranea all’uomo che renda le parole, o i colori, le note, strumenti magici: atti, cioè, a penetrare volontariamente nel regno della distruzione. Questa forza è il demoniaco. [...]
Dunque, con l’aiuto del demonico che fornisce le parole magiche, si fa la cronaca del proprio amore. Ciò significa usare le parole magiche in modo da distruggersi in esse, come in chi si ama. Distruggersi in chi si ama significa gettare via tutte le limitazioni dei propri sensi – che costituiscono la propria identità – e quindi morire nell’emozione di amore e rinascere nella persona che si ama. Tutto ciò è possibile nell’ambito del solo amore, e porta all’immortalità ambedue gli amanti che si sono autodistrutti (come mortali) l’uno nell’altro, per rinascere in una sola persona immortale2.

Noi lo sappiamo insieme, nella tua bellezza ed in quella che io posso creare è il segno della distruzione, ci unisce in un lento delirio che è amore perché questa distruzione è immortale, vita estatica nel dolore di questa notte che si spezza, e sulle gambe immerse nel mare si aggrappano le conchiglie. Una per una le proviamo sull’unghia fino a sentirne il sangue3.




1.1 Morfologia della cultura
La prima monografia di Jesi è dedicata a La ceramica egizia. Dalle origini al termine delletà tinita (1958)4: tale risultato di un lavoro di ricerca presso le collezioni del «Pelizaeus-Museum» di Hildesheim, «ineccepibile da un punto di vista storico-filologico»5, prende in considerazione reperti di ceramica della valle del Nilo dall’età neolitica all’età tinita, un arco cronologico preistorico che dal VI millennio giunge al III millennio e all’unificazione dei regni che diede vita all’Egitto dinastico.
«Il discorso critico-archeologico è però da subito attento a cogliere le trasformazioni iconografiche e morfologiche dei reperti presi in esame, traendo da queste manifestazioni delle inferenze di carattere più ampio, appartenenti alla semantica religiosa e mitologica»6: in questo senso vale la pena di notare come il libro sia intitolato alla memoria di Leo Frobenius, corredato di due introduzioni, una di Boris De Rachewiltz7 e una dello stesso Jesi.
Frobenius, autore della Kulturgeschichte Afrikas8 intellettuale conservatore dalla grande influenza nella Germania guglielmina, è presente nel testo come punto di riferimento teorico, sia per il contesto specifico (sua la tesi per cui l’Egitto è il «vero punto di contatto dell’Africa nera con il Mediterraneo»9) sia per la «Kulturmorphologie» e la connessa teoria del «paideuma, il sorgere e trasformarsi di tutte le esperienze della coscienza commossa, secondo l’intimo orientamento delle forme di una civiltà»10.
Sviluppando in modo autonomo la teoria dei cicli culturali, l’etnologo ipotizzava ogni civiltà come complesso organico dotato di una propria vita, la cui origine andava ricercata in una matrice «oscura e profonda» responsabile dello sviluppo umano e tale da “afferrare” l’uomo in senso non razionale spingendolo verso la trasformazione; tale processo evolutivo si articolava in stadi caratterizzati dallo stato cognitivo, dall’intuizione attraverso la maturità razionale fino alla fase meccanica e materialista della decadenza di una civiltà. Paideuma11 (ciò che si acquisisce nella cultura) era il principio dell’esperienza conoscitiva primordiale, principio dinamico e attivo di cui l’uomo partecipa passivamente subendo l’azione del mito: questo così era pensato come l’emento produttivo della civiltà, le cui tracce possono essere colte nella dimensione culturale di cui l’arte è l’espressione più alta. Per Jesi il «paideuma» è il «nucleo attivo» della «commozione», «determinante prima della civiltà, trascendente l’uomo», concetto appartenente alla «metafisica tedesca di quegli anni» e derivante dal «tentativo di attingere alle fonti della civiltà attraverso l’oggettivazione dell’esperienza psichica collettiva, così come in un altro campo fu la dottrina dell’inconscio collettivo di C.G. Jung»12.
Come si legge in un frammento autografo «nella sua fase originaria il mito è verità inesprimibile, accessibile soltanto tramite la commozione che permette di entrare in contatto con un mondo super-umano. In tale fase il mito è la cosa dinanzi alla quale la parola si arresta»13.
In questo senso, la filosofia della storia è sostanzialmente quella del ‘tramonto dell’occidente’ e l’antropologia presupposta è un primitivismo tipico dell’etnologia ottocentesca e proto-novecentesca: le stesse concezioni che de Rachewiltz professa scrivendo che «la vitalità della coscienza africana si manifesta nel processo zoo-cefalo-antropomorfico che si oppone al pensiero razionale»14. In qualità di prefattore questi presenta il lavoro di Jesi come lo sviluppo originale della teoria della «commozione» (Ergriffenheit) nel rapporto uomo-ambiente («sottratta alla legge di causalità e a quelle del determinismo») con la teoria delle «connessioni archetipiche, che in forma irrazionale si stabiliscono nella psiche dell’individuo», definendola una sorta di «psico-analisi» che consente di riportare «la simbologia decorativa e la morfologia delle ceramiche agli elementi archetipici»15. Dal canto suo Jesi esprime uno spirito nettamente antipositivista spiegando che «la forma di espressione cosciente di determinati fenomeni inconsci è rappresentata da una serie di concetti, legati fra di loro in base ad affinità elettive dichiaratamente estranee ai rapporti logici»16 e dichiarando che «in un gioco che non sia regolato dall’illusione spazio temporale, espressione significa mettersi in rapporto di commozione con determinate realtà»17.
In altri termini, sposando alcuni aspetti della morfologia della cultura di Frobenius, Jesi accetta la teoria della ‘commozione’, presupponendo, in modo analogo a quanto sostenuto da Lévi-Bruhl sul carattere pre-logico della mentalità primitiva, che la coscienza arcaica fosse sottratta allo spazio-tempo18; inoltre afferma che «tutto il volume rappresenta un piacevole esercizio – e non a caso questo termine corrisponde all’exercice poetico di Valery – una forma di adattamento al gioco, un’approssimazione ad un inesistente “vero scientifico”»19.
Posto che la sua resistenza allo storicismo non sarebbe mai venuta meno, benché differente nella sua formulazione – almeno quanto Benjamin lo è da Frobenius –, Jesi è ancora lontano da quanto avrebbe sostenuto con forza anni dopo: ovvero che la lotta contro il razionalismo è uno dei sottotesti dell’opera di molti intellettuali reazionari che videro proprio nella razionalità e nel materialismo la causa di una decadenza dell’Europa e dei suoi valori spirituali, pensando di richiamarsi al mito come garante di una genuinità del senso della vita20.
De Martino, particolarmente attento alla salvaguardia della ragione storica, commentando i presupposti della scuola di Frobenius, ha scritto che «distribuzione nello spazio, seriazione cronologica e identificazione dei nessi causali appartengono al momento euristico dell’anamnesi storiografica»21: intendeva così distinguere la teoria dal suo oggetto e riconoscere l’importanza dell’approccio volto a comprendere la specificità del mondo culturale dei ‘popoli di natura’ certamente diverso da quello europeo. Ma allo stesso tempo avvertiva come la teoria della «morfologia della civiltà» presupponesse un’«assenza di logos» e delineasse «un quadro statico di entità [...] rigide, senza sviluppo, ciascuna chiusa in se stessa da contemplarsi ciascuna nella sua essenza gratuita», in modo tale che la storia si risolvesse «in una serie di destini culturali che si consumano in se stessi. [...] Percorrendo questa strada sino in fondo si mette capo al relativismo, al fatalismo, al pessimismo e al dilettantismo di Oswald Spengler»22.
Com’è noto in base a un severo criterio di matrice marxista e antifascista l’antropologo napoletano includeva Frobenius, Rudolf Otto, Walter F. Otto e anche Kerényi in una medesima temperie intellettuale politicamente sospetta23; eppure in questo primo tentativo teorico di Jesi24 si possono cogliere elementi di discontinuità che configurano uno sviluppo differente dall’‘irrazionalismo metafisico’, nel senso di un’indagine razionale su forme di razionalità diverse da quella strettamente logico-discorsiva: sulla scorta della psicologia analitica di Jung nella teoria delle connessioni archetipiche l’associazione simbolica infatti è collegata ai ritmi biologici e contaminata con elementi formalistici di stampo storico-semiotico come quelli di Propp25. Tale eclettismo ha anche una giustificazione di ordine materiale visto che le prime fonti di Jesi si trovano nella Collana Viola di Einaudi, la «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici»26: in essa prospettive differenti e perfino antitetiche sul sacro rischiavano di apparire come coerenti e organiche, come avvertivano gli stessi curatori, i quali, nella battaglia culturale nel dopoguerra italiano, manifestavano opinioni differenti sulla necessità di orientare il pubblico per arginare l’irrazionalismo di alcuni libri; mentre De Martino riteneva necessario che ogni testo fosse introdotto da saggi ‘pedagogici’, per Pavese tale operazione risultava irritante e invadente27. Per la prima formazione di Jesi la questione, che sarebbe riemersa con forza ancora maggiore nella cultura europea alla fine degli anni sessanta, è fondamentale:

È come se, appartenente alla generazione che su questi libri si formò, nel suo lavoro Jesi abbia ereditato e rimeditato alcuni aspetti del dibattito su una serie di autori ritenuti “pericolosi”, con il rischio che la profilassi nei loro confronti risultasse ideologicamente contraddittoria quanto la materia “irrazionale” da cui ci si voleva difendere28.

In questa fase lo studioso, non ancora ventenne, pur non avendo in mente quali saranno gli esiti della sua ricerca e non dominando ancora completamente le sue fonti dimostra comunque di aver scelto il suo ambito di interesse: il dibattito degli anni in cui l’Anthropologie Structurale e altri caposaldi del Novecento rovesciavano il modo di guardare l’uomo.
1.1.1 Rapporti tra cose
Il saggio teorico Le connessioni archetipiche (1958) parte dalla constatazione della «presenza costante di immagini affini, di “luoghi comuni”» che solcano la storia della cultura, in particolar modo per ciò che riguarda la tradizione letteraria popolare e il patrimonio mitico religioso che con questa è imparentata. Si tratta di «motivi che si ripetono nelle differenti forme in cui noi veniamo a conoscenza di ciascuna vicenda, mantenendosi a volte inalterati formalmente, a volte subendo modifiche relative alla natura apparente dei personaggi ed al procedere dell’azione»29.
Le varie metamorfosi, a volte così estreme da rendere irriconoscibile il collegamento tra due elementi imparentati, sono da mettere in relazione con il ‘regime sociale’ nel quale i racconti prendono forma: in questo modo nella ricezione attraverso il tempo, quando i legami diretti e conoscibili tra ‘motivo’ e ‘istituto sociale’ si siano persi si apre uno spazio di «libertà della creazione di ciascun narratore»30. Nell’impossibilità di cogliere l’origine di un racconto, in ogni tempo la narrazione modificata può avere una sua ‘attualità’ e risultare significante per i parlanti e i contemporanei che la condividono, i quali posseggono le chiavi contestuali per la comprensione del significato rielaborato.
Su questo presupposto marxiano (la struttura condiziona la sovrastruttura, la quale si modifica meno rapidamente della prima), la ricostruzione del processo genetico delle alterazioni formali e contenutistiche dei racconti mette in luce forme invarianti («universalità di particolari motivi») che sono il «risultato di un processo spirituale»31. Tale universalità per Jesi «risulta chiarificata dal punto di vista psicanalitico dalle indagini parallele di Jung e Kerényi» i quali la definiscono in termini di «archetipi» come «automanifestazione dell’inconscio» di natura collettiva32.
Jung, nel 1924, scrivendo di uno «spirito primitivo dimenticato» considerava l’inconscio collettivo come «complesso di immagini, che si esprimono nelle mitologie di tutti i tempi e tutti i popoli» e che «ogni individuo riceve in potenza in virtù dell’eredità», in modo tale che «le immagini mitologiche possono sempre, in modo spontaneo e concordante ritornare non solo in tutti gli angoli della terra ma anche in tutti i tempi» in virtù di un «medesimo cervello umano, che funziona nel medesimo modo ovunque con varianti relativamente piccole»33. Nel noto libro scritto a quattro mani con Kerényi34 comparivano gli archetipi principali (ombra, vecchio, fanciullo, madre, fanciulla etc.) che costituirebbero le componenti originarie del sé di un uomo universale.
Così Jesi scriveva:

La mia critica ai concetti tradizionali nel campo della mitologia procede inizialmente dalla constatazione che soltanto le connessioni fra due elementi possono ritenersi archetipiche. Se, a proposito della connessione fra tali elementi, si può parlare di una forma della “partecipazione” di Lévy-Bruhl, non si deve pensare che le “essenze comuni” in funzione delle quali vengono “sentiti” i singoli individui, corrispondano alle nostre rappresentazioni di figure archetipiche. La forma di maggior approssimazione all’immagine di “essenza comune” è rappresentata dalla natura stessa, dall’essere di due concetti fra cui sussista una connessione archetipica35.

Un connessione può avere luogo tra immagini astratte e concrete, le quali attraverso le relazioni reciproche creano un senso: si intende qui che è impossibile separare una immagine dal suo significato, come se l’una fosse concetto esemplificato e l’altro un concetto astratto. «Relazione reciproca» vuol dire, per esempio, che «il concetto ctonico-oracolare è il significato, il valore dell’immagine del serpente, così come il serpente è il significato, il valore del concetto ctonico-oracolare»36.
Questa concezione del simbolo, per cui significato e significante coincidono nel mito è una costante dell’intera produzione jesiana che troverà riscontro nella continua e successiva ripresa del concetto bachofeniano di «simbolo riposante in se stesso»37. Ed è una formulazione più articolata di ciò che Sigfried Giedion affermava quando scriveva che in età preistorica «il simbolo stesso fu realtà, mezzo di possesso del potere magico, tale da influenzare direttamente il corso degli eventi»38.
Il tipo di conoscenza che ne deriva è quello di «creazione fittizia, puramente formale ed estranea al senso o al non-senso delle connessioni», ma capace di significare la realtà: l’esame delle connessioni, indipendentemente dal contesto, può rivelare qualcosa circa la concezione del mondo che esse esprimono. La capacità cognitiva degli uomini della preistoria sarebbe dunque caratterizzata da una identità della conoscenza-espressione come partecipazione all’inconscio collettivo, in modo tale che in ogni «fenomeno espressivo si ritrova una personalità umana e una realtà»39.

Secondo la teoria delle connessioni archetipiche il concetto di spazio-tempo si presenta nella coscienza dei primitivi successivamente al frazionarsi dell’inconscio collettivo e in base ad una esigenza di distinzione e di comparazione tra gli oggetti40

Sottratto alla catena causale il pensiero, come mostrerebbero le serie prese in esame di motivi riportati sulla ceramica egizia (piante, animali, battelli, grafismi geometrici), manifesterebbe una «presa di contatto con il mondo» espressa mediante «simbolismo reciproco»41, «ogni elemento è in rapporto con gli altri: lo si può considerare un significato degli altri o viceversa»42: una sorta di flusso privo ancora di un «”senso”, di una direzione»43 che mantiene ogni possibile intellegibilità nei limiti della sola associazione. Compare qui la stessa precedente definizione di «affinità elettive decisamente estranee ai rapporti logici» che viene presentata come ciò che caratterizza il «gioco della mitologia»44.
In un altro scritto dello stesso periodo (Studi cosmogonici45) Jesi descrive come le insegne dei battelli egizi fossero simboli di clan e segni di nomi, posti in rapporto con divinità locali e soggetti a diffusione come elaborazioni successive di materiale «totemico»: elementi formali indissolubili non più compresi ricevevano nuovo significato in un periodo successivo. Anche qui ciò che in uno strato arcaico è connesso cambia di segno sulla base di una riattivazione, e in tal senso la «realtà mitologica» delle figure divine poteva spiegarsi come «trasposizione costante del medesimo schema di immagini in innumerevoli “leggende”, quasi che in ciascuna funzione delle immagini della divinità si rinnovi un dubbio umano»46.
Le connessioni sono ciò che è potenzialmente nella «psiche di ciascun individuo» in uno stadio di latenza che può passare in atto in presenza di una determinante fisiologica, sotto l’effetto della commozione. Jesi parla qui di una catena ‘archetipica’ tra ambiente ritmologico-biotipo-immagini47: il fenomeno è accostato da Jesi al principio di Pavlov dei riflessi condizionati ma in assenza di concezione consapevole del rapporto di causalità da parte degli uomini:

la connessione archetipica descrive il comportamento psichico determinato da stimoli sensori condizionatamente alle potenzialità psichiche di realizzazione delle connessioni stesse, risultanti a loro volta manifestazioni coscienti di fenomeni inconsci. La connessione archetipica informa il successivo comportamento fisiologico: anzi è giusto dire che intuitivamente è esattamente comprensibile il concetto di connessione archetipica da un punto di vista dinamico e non statico, come un fenomeno nel suo corso. Si ricade così nella mitologia vissuta48.

La radicale differenza tra realtà dinamica indeterminata e successiva strutturazione logica è sostanzialmente impensabile a causa di una «inevitabile deficienza del linguaggio riguardo alle cosiddette “rappresentazioni intuitive”»: la sua descrizione non può che configurarsi come quella di «uno dei tanti elementi di un meccanismo»49.
Ma continua Jesi, sarebbe errato leggere tale teoria «trasferendo sul piano metafisico la natura intrinseca dell’adattamento» ovvero l’equilibrio di un sistema complesso uomo-ambiente: se teniamo conto che siamo partiti da Frobenius, questo vuol dire che dal cuore di un pensiero ad alta significatività metafisica Jesi cerca di tradurre elementi archetipici in componenti di un sistema nervoso centrale su basi genetiche50.
1.1.2 Condizionamenti, indizi
Se non si può negare una certa oscurità nell’argomentazione di questi primi testi, in un inedito dal titolo l’Archeologia e i riflessi condizionati la teoria e i suoi presupposti sono riformulati in modo più chiaro e diretto:

Pavlov aveva spiegato il fenomeno dei riflessi condizionati con la presenza di una specie di grande circuito: dalle superfici sensibili partono degli stimoli che confluiscono a centri d’attenzione (quasi campi magnetici) posti nei grandi emisferi del cervello; di qui, altre correnti muovono in varie direzioni, provocando azioni in apparenza non connesse con gli stimoli (apparizione d’una luce: stimolo che parte dall’occhio, giunge al centro di raccolta, mette in moto una corrente che suscita la salivazione)»51.

Dando prova di un approccio che sembra anticipare un procedimento ermeneutico di natura indiziaria52, Jesi afferma di voler trasporre il principio per via analogica nell’ambito degli studi archeologico-antropologici, nel senso che «anche l’uomo in presenza di un certo stimolo sensorio (una temperatura, un dolore, una difficoltà fisica), che condizionava uno stato di benessere [...] era portato a ad associare l’idea di tale sensazione a quella della sua conseguenza benefica»53.
La teoria della connessioni archetipiche, «basandosi sulle conquiste della moderna psico-analisi così come della fisiologia, si ripromette di indagare il fenomeno del pensiero e dell’attività umana, partendo dello studio delle creazioni di civiltà»54: l’analisi della cultura materiale è il sintomo, la traccia o l’indizio tale da permettere allo scienziato di risalire alla «scintilla creatrice» che presiede alle varie fasi di realizzazione dei fenomeni culturali. Questa è la «commozione» a partire dalla quale si verifica «la connessione di due immagini, le quali erano latenti nella psiche» e che, in questo testo, sono esemplificate con figure tratte da miti, leggende, favole: uomini e animali, leone e sole, sangue e vita, primavera e nascita, autunno e morte. Poiché l’essere umano «associa di volta in volta l’una o l’altra immagine a seconda delle condizioni materiali in cui si trova» una cultura agricola «giungerà a connettere il nascere e il morire della natura con la nascita e la morte di un dio»55.
Jesi afferma l’inevitabilità nell’essere umano della domanda metafisica di senso, che anni dopo chiamerà fame di mito giungendo a considerare la mitopoiesi come fatto costitutivo della cultura umana in tutte le sue fasi, compreso quelle più avanzate e recenti:

Ma perché [un popolo] non può accontentarsi di mangiare pane di grano senza collegare la nascita di un grano a quella di un dio? [...] Perché la connessione dell’elemento materiale – il grano – con l’immagine, la nascita e la morte del dio – porta l’uomo ad un equilibrio fisico e psichico quasi assoluto, ad uno stato di benessere primitivo la cui mancanza determina lo squilibrio e l’angoscia56.

Il bisogno di armonia psichica e fisica è necessario per il mantenimento di un equilibrio nella conduzione materiale dell’esistenza singola e collettiva, un «pieno sviluppo della vita», per garantire il quale primitivi, antichi e moderni, mettono in atto analoghe risorse da un punto di vista formale, intrecciate tra di loro da un punto di vista contenutistico. In questo senso lo sviluppo straordinario della capacità simbolica («abisso tra l’animale e l’uomo») è considerata in termini antropologici come la straordinaria specificità dell’essere umano, rendere ragione della quale è il compito della scienza che verrà.
A confermare questa linea interpretativa è un testo del 1966, il saggio divulgativo Lorigine delluomo (scritto per «Storia illustrata») che ripercorre la teoria dell’evoluzione, in senso fedelmente darwiniano, da Talete a Oparin, e corredato di una bibliografia aggiornata. Qui l’uomo, già in epoca preistorica, appare caratterizzato dalla sua «capacità simbolica», con esplicito riferimento a Cassirer, coincidente con una «fase della graduale complessificazione degli organismi considerati dall’evoluzionismo»57. Facendo riferimento alle raffigurazione pittoriche del paleolitico, a cui i numeri dell’AIEP dedicavano ampio spazio, le immagini parietali delle grotte di Altamira e Lascaux sono descritte come capaci di attraversare tempi e generazioni: «ogni generazione aggiungeva figure, e tutte le figure – quelle tracciate dagli antenati, dai padri e dai figli – vivevano simultaneamente della medesima vita sacrale»58.
Per concludere con la grazia del narratore consumato:

Ma l’evoluzione era in atto, e con essa il fenomeno della conoscenza. Se in un’epoca primordiale l’uomo aveva potuto dire “in me si pensa”, giunse un giorno in cui egli disse “Io penso”. Ed allora egli prese coscienza di sé, e invece di abbandonarsi alle emozioni che gli giungevano dal mondo esterno, cercò di imporsi su quel mondo: di imporvi la sua volontà59.
1.2.4 Chiarimenti
La prima produzione jesiana presenta diversi elementi di criticità per i riferimenti e le teorie che vi confluiscono, le quali oltre a essere di complessa interpretazione vengono rielaborate talvolta in modo arbitrario. Da questo punto Jung è emblematico: più che essere oggetto di studio sistematico è una sorta di pretesto vicino ai propri interessi per disporre le proprie proposte teoriche entro un quadro di riferimento coerente. Tanto più se si pensa che su di lui l’accusa di cripto-fascismo pesava in modo significativo, congiunta alla critica di oscurità.
Il concetto junghiano di archetipo nella sua fase più matura, prevede una distinzione tra archetipo e immagine archetipica, e conseguentemente l’idea di una trasmissione della potenzialità rappresentativa e non della rappresentazione tout court60, in modo tale da giustificarne il dispiegamento nella storia: ancora nel 1973 Jesi attribuisce alle «strutture psichiche universali e identiche»61 una sostanziale affinità da un lato con le dottrine della destra tradizionale che vedono negli elementi primordiali una sostanza metafisica e sacrale e dall’altro con lo strutturalismo di Lévi-Strauss, per il quale archetipali sarebbero le «epifanie obbligate delle norme di logica interna dei miti»62.
Tale interpretazione risulta strumentale nella misura in cui entrambi gli autori divengono studiosi di un ‘mito’ impossibile da conoscere, da contrapporre a Kerényi che nella mitologia ha indicato, invece, ciò che è conoscibile in quanto umano e in quanto oggetto di una possibile comprensione ‘commossa’. Determinante in Jesi sarebbe l’influenza indiretta che la ricezione di Jung ha esercitato sul surrealismo, con la concezione della conoscenza in quanto «stato di sogno»63, e sul Benjamin dei Passages64. In tale senso autori-fonte, con un procedimento che risulterà tipico, vengono sostanzialmente ridotti a ‘formule’ che potranno essere utilizzate in senso originale e non senza consapevole arbitrarietà65.
Per cercare di mettere ordine converrà chiarire alcuni punti, a costo di anticiparli. A partire dalle sue fonti e poi nel suo metodo, Jesi manifesta la contraddittoria volontà di scegliere un procedimento scientifico e antimetafisico, salvo poi declinarlo con un antistoricismo che altri chiamerebbero irrazionalista. In ciò Jesi riflette la cultura di diversi suoi maestri, appartenenti a una fase degli studi sul sacro in cui – scrive Dubuisson – una serie di «pregiudizi primitivisti» si fonde con altri «riflessi intellettuali», quali «l’ossessione costante, in parecchi studiosi della fine del secolo scorso, di mettere insieme delle arbitrarie esperienze psicologiche originarie, la potenza dell’immaginazione, l’origine delle religioni e di meccanismi del linguaggio, come se questi elementi disparati costituissero un insieme omogeneo»66.
Ancora più radicale è la critica, avanzata da Edmund Leach a tutte le posizioni accomunate da un «postulato ‘vichiano-roussoviano’» ovvero l’idea che la poesia sgorghi naturalmente nell’uomo in quanto espressione immediata di emozioni costituendo la base del processo di «simbolizzazione» che sarebbe la dote specifica dell’Homo sapiens: tale postulato

ammette una progressione evolutiva dell’uomo dallo stato naturale, senza artifici né linguaggio, allo stato culturale, con artifici e con linguaggio, ma scopre la causa efficiente di tale progresso nella stessa potenza inventiva della natura umana. Ma ciò equivale a dire che l’attività intrinsecamente razionale dell’astratta previsione immaginativa potrebbe essere l’attributo di una creatura che non abbia ancora quello strumento primario per simili operazioni mentali umane che è il linguaggio.

Bisogna dunque presupporre come specifici del processo evolutivo una

serie di mutamenti che agli inizi ebbero luogo casualmente […] e che in seguito in qualche modo divennero una caratteristica geneticamente determinata, condivisa da tutti i membri della specie umana in seguito all’adattamento selettivo. Uno sviluppo evolutivo di questo tipo è un processo storico totalmente diverso da quello dell’invenzione cosciente67.

Si può individuare il tratto comune di queste posizioni nel mito dell’origine, che un teorico del mito in senso estetico-antropologico come Hans Blumenberg riscontra ancora nell’opera di Cassirer. Questi, nonostante il progetto di abbattere la dicotomia tra mythos e logos, non abbandona una prospettiva evolutiva in cui il mito, filosofia e scienza si presentano allineate in una genealogia progressiva. La concezione “ingenua” del mito come essere dellorigine’ deve essere secondo Blumenberg rovesciata con l’interesse non per la ricezione, storicamente situata di ogni mito: le «teorie sulle origini dei miti sono oziose [...], in genere noi non sappiamo niente delle origini»68.
Jesi rimane affascinato dalla vertigine dell’originario fino a quando – questa è la tesi che intendo mostrare – a metà degli anni settanta matura uno stile saggistico con il quale ha rinunciato a essere storico delle religioni e teorico dello spirito umano: attraversando il dibattito sullo strutturalismo e approdando a una critica letteraria che è anche critica dell’ideologia. Mi sembra che il ‘primo’ Jesi possa essere considerato come studioso ancora in transito tra la scienza del mito ‘classica’ gravata di ipotesi metafisiche e una più complessa costellazione di scienze storiche e della cultura che si andava definendo in quegli anni con progressive specializzazioni, la cui matrice è principalmente l’antropologia: benché estremamente erudito il giovane studioso non può che apparire oggi estremamente avventuroso nelle sue interpretazioni, nella quali non mancano forzature interpretative e imprecisioni; il che è spiegabile dal fatto che i dati gli servivano per formulare teorie antropologiche e psicologiche di più ampio respiro.
Negli anni settanta con l’adesione a un approccio al mito storico-storiografico, gli elementi velleitari e capziosi sarebbero scomparsi, risolti grazie a una certa disciplina della scrittura, prima intellettualistica e barocca; ma anche grazie a una serie di studi e letture che hanno impresso una differente direzione alla sua attività, in un ambito quale quello delle trasformazioni del mito nella cultura moderna.

1.2.5 Il rapporto con lo strutturalismo

In uno dei primi tentativi di individuare le influenze dell’opera di Jesi, in un dolente articolo scritto a ridosso della prematura scomparsa, Sergio Moravia scriveva:

Una delle porte aperte nel nostro paese a un certo tipo di approccio alla dimensione del sacro l’ha spalancata proprio Jesi: negli anni Sessanta, quando in Europa dilaga lo strutturalismo e tutti (o quasi tutti) giurano sulla sofistica delle modellistiche logico-matematiche di Lévi-Strauss, Jesi continua a guardare a un’altra metodologia, ad un un’altra procedura, che si apriva verso l’ermeneutica, si agganciava a Mircea Eliade per poi tornare ai prediletti Kerényi e Dumézil69.

Se molto di questo è vero, il giudizio sembra eccessivamente tranchant e dettato dalla mancanza di prospettiva: è vero che Jesi criticò lo strutturalismo come genere codificato e lo stesso Lévi-Strauss70, ma è altrettanto vero che le opere del maestro francese, in particolare i Mythologiques, influenzarono molto e in senso fecondo un’intera generazione di studiosi, tra cui Jesi71.
Già il Lévi-Strauss di Antropologie Structurale (1958) con lo spostamento dello studio dei fenomeni linguistici coscienti a livello delle «infrastrutture incoscienti», facendo proprio il metodo della linguistica, metteva alla base delle sue analisi le relazioni tra i termini di un sistema. Anche nelle opere tarde di Jesi – nelle quali rifiutando la formalizzazione matematica e dubitando della possibilità di individuare il sistema trascendentale di funzionamento dell’ésprit72 – il paradigma ricombinatorio è fondamentale come elemento delle genesi di nuovo senso: ogni cultura elabora il proprio sistema di classificazione della realtà basandosi su regole che danno vita a un’infinita varietà di rappresentazioni incrociando elementi invarianti, che si trasmettono nel tempo e costituiscono la sua storia. Le critiche che lo storicismo marxista ha avanzato verso Lévi-Strauss accusandolo di aver neutralizzato la storia, rifiutato contenuti e negato valore ai fatti che nella loro contingenza sarebbero inferiori alla forma73, sembrano oggi eccessivamente severe. A conferma di ciò sta il connubio di strutturalismo e marxismo: a proposito del «potere polemico del metodo strutturale, derivato da Saussure, e applicato fuori della linguistica, soprattutto da C. Lévi-Strauss e J. Lacan» valgano le parole di Roland Barthes. «La descrizione sincronica delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto all’idea di Natura?»74.
Nelle Mythologiques (1964-1971) Lévi-Strauss ha proposto un’analisi dei patrimoni mitologici in modo che sia possibile tornare da un certo mito verso un altro da cui si erano prese le mosse: l’analisi strutturalista permette cioè di smontare e rendere criticamente apprezzabile i miti presentandoli in forma di elementi nel loro stato disaggregato. Si tratta del procedimento inverso all’uso politico dei miti, il caso estremo di manipolazione di un materiale linguistico o iconografico: in esso è ravvisabile l’intervento in virtù del quale elementi sintagmatici sono resi operativi dalla violenza esecutiva che separa il linguaggio dalle pratiche sociali in cui era inserito in un determinato punto della sua storia e diviene altro, simbolo caricato di un aumentato potere performativo in un momento della sua ricezione75.
Moravia ha ragione nel sostenere che «Jesi non era nato per limitarsi a divulgare il pensiero altrui»76: nella sua rielaborazione ha cercato di rendere ‘caldo’, storicamente dinamico, quello che Lévi-Strauss ha inteso raffreddare fino a ipotizzare che dietro a una serie mitologica si potesse individuare il mito come stuttura nella forma fantasmatica dell’algebrizzazione.
Se per quanto riguarda il mito antico si ritrova in sintonia con Dumézil, la cui opera non a caso Lévi-Strauss considerava analoga alla propria per l’approccio storico-morfologico, Jesi ha verticalizzato in senso diacronico gli elementi statici, orizzontali e sincronici che lo strutturalismo illustra nella loro disponibilità, in conformità alle indicazioni di de Saussure che vedeva nella linguistica tanto lo studio della coesistenza simultanea dei fenomeni, quanto il mutamento dei valori da una fase storica all’altra: su questa via Jesi ha sviluppato l’interesse per il mito, prima con tentativi teorici e poi con un modello minimo che potesse essere operativo per cogliere la continuazione della mitopoiesi nella storia della storiografia, nella letteratura e nella costruzione degli immaginari culturali tramite la monumentalizzazione dei documenti e la canonizzazione dei saperi.
Interviene poi un ulteriore elemento a mutare l’orientamente generale del lavoro intellettuale di Jesi: un’umanesimo intensamente sentito che diviene quasi un ‘misticismo senza religione’ a partire dal quale egli ha trasformato la ‘commozione’ in una teoria dell’immaginario fino a delineare un naturalismo che pare il portato della riflessione sulla propria origine ebraica e dall’influenza di Benjamin, sia per il modo militante di intendere la critica che per l’affinità con l’idea della redenzione profana e della cultura come utopia77. Nel suicida di Port-Bou lo studioso torinese poteva trovare un modello per l’appropriazione e la restituzione in chiave personale dei suoi interessi più disparati, ma anche il coraggio di scegliere collegamenti e riconoscere analogie, non senza una certa arbitrarietà78. Per questo Jesi, come aveva scritto un editor americano nel respingerne un testo, può apparire «estremamente soggettivo e [...] difficile da seguire»79.

1.2.5.1 Fenomenologia della cultura

Quando ho cominciato a studiare materiali mitologici, simboli, prove metodologiche di scienza del mito alle fine degli anni ‘50 i testi di Jung mi emozionavano moltissimo, più di quelli di Kerény. “Inconscio collettivo”, “archetipo”, “mandala”, mi sembravano parole di sapienza. [...] i miei primi scritti in questo ambito (...) sono per molti aspetti junghiani, anche se fin da allora provavo un certo disagio verso l’”archetipo” come forma in cavo di una figura a tutto tondo, e cercavo di rimediarvi con il modello delle “connessione archetipiche”: costanti – direi oggi – linguistiche, norme obbligate della composizione anziché figure organiche di una galleria di ritratti80.

Così l’autore si presentava in uno degli ultimi scritti: prendendo in considerazione l’opera giovanile in questa prospettiva, gli elementi datati sono comunque minori rispetto alle istanze di innovazione che emergevano. Per Bidussa le connessioni archetipiche sono elementi per la «costruzione di sistemi di classificazione simbolica basati su una complementarità o anche un’opposizione resi paradigmatici dalla loro riproposizione costante»81, e in questo senso andrebbero prese in considerazione nel contesto della svolta semiotica degli studi della cultura, sulle indicazioni dello stesso Jesi rispetto all’importanza del formalismo82.
L’invarianza dell’iconografia, ottenuta dalla serie di trasformazione e combinazioni configura una idea di «sovrapposizione» come «via intermedia tra persistenza e ripetizione»83 che induce a formulare ipotesi sulla porosità dei tempi nella loro stratificazione, ovvero forniscono elementi per la comprensione delle modalità di «reiscrizione del sapere tradizionale dopo che si sia persa la sua origine», ovvero la rielaborazione dei patrimoni mitologici in ambito letterario e il loro inserimento nei differenti contesti ideologici «che prepara la questione dell’uso politico dei materiali sacri e mitologici». In questo senso la teoria giovanile contiene le condizioni per lo sviluppo di una fenomenologia della cultura e anticipa la riflessione sulla metastoria84:

Le connessioni archetipiche sono solo il primo passo verso una grammatica dell’immaginario, non forniscono la sua sintassi. Perché questo sia evidente, o almeno ricostruibile, occorre che si considerino altri documenti che si determini una serie, o comunque si correlino tra loro più serie, che si valuti come quelle connessioni archetipiche agiscano all’interno di materiali verbali e iconografici che si strutturano [...] con l’impalcatura del mito. Ovvero con qualcosa che non è più il mito, ma che non è nemmeno la sua memoria o il suo significato. Questo qualcosa che ancora non ha un nome, che non giunge ancora a concettualizzarsi è “la macchina mitologica”85.

In altri termini studiare il mito diventa oggetto di interesse per una storia della storiografia tale da cogliere la vicenda dialettica di demitologizzazione e rimitologizzazione che caratterizza la modernità: all’interno di essa il mito assume un ulteriore valore di nostalgia e concide con la mitizzazione del mondo antico nella storia culturale europea, pensato e presentato nelle storiografie nazionali come fondativo e migliore del presente, corrotto e decaduto. «La dimensione “altra” del mito determinata dalla sua assenza» è ciò che costituisce il suo fascino, che risiede nel suo «campo magnetico»86.




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1 F. Jesi, Lorigine delluomo, cit., p. 95.
2 Manoscritto di Jesi datato 10 febbraio 1961; riportato in A. Cavalletti, Il metodo della scrittura indiretta, in K, pp. 216 ss.
3 Foglio sparso e senza titolo, risalente ai primi anni sessanta. Archivio di famiglia.
4 Così il frontespizio: F. Jesi, Direttore dell’archivio internazionale di Etnografia e preistoria, Le ceramica egizia dalle origini alletà tinita. Con 32 fotografie - 29 delle quali riproducono oggetti inediti - e 14 disegni. Con un capitolo di Pierre Gilbert. Professore di Egittologia all’Università di Bruxelles. Prefazione di Boris de Rachewiltz, S.A.I.E., Torino, 1958 (CE).
5 M. Cottone, Scienza del mito e critica letteraria: conoscere per composizione, in «Studi filosofici», n. XVI-XVI, cit., p. 229.
6 R. Ferrari, Saggio e romanzo in Furio Jesi, cit., p. 21.
7 Boris de Rachewiltz, studioso e aristocratico, celebre per una discussa traduzione del cosiddetto Libro dei morti e marito di Mary Pound, figlia dello scrittore.
8 L. Frobenius, Storia della civiltà africana (1933), ed. it. Einaudi, Torino, 1950.
9 B. De Rachewiltz, Prefazione, in CE, p. 9.
10 Ivi, CE, p. 10.
11 Il “paideuma” indica «la capacità di abbandonarsi spiritualmente e in piena “realtà” a un altro mondo fenomenico, poiché l’ometto o l’uomo si lasciano improvvisamente commuovere da un fenomeno fuor delle loro relazioni naturali e delle loro cagioni evidenti». L. Frobenius, Storia della civiltà africana, cit., pp. 52-53.
12 F. Jesi, Frobenius, voce firmata in Grande dizionario enciclopedico, Utet, Torino, 1968, vol. VIII, pp. 431. Nella stessa voce l’autore sottolinea la vicinanza teorica con la concezione del simbolo in ambito estetico di George, Gundolf e Klages, e la grande stima che l’imperatore Guglielmo II aveva di lui, «nel quale cercava un appoggio scientifico alle proprie elucubrazioni misticheggianti» (p. 430).
13 F. Jesi, inedito della serie Mito e linguaggio, in «Cultura tedesca», cit., p. 84, c. n.
14 CE, p. 10, c. n.
15 CE, p. 12.
16 CE, p. 17.
17 CE, p. 21.
18 L. Lévi Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures (1910); La mentalité primitive (1922); Lâme primitive (1928): è il caso di ricordare che Malinowski, Cassirer e Lévi-Strauss, a cui Jesi si sarebbe rifatto successivamente, criticarono apertamente questa idea.
19 CE, p. 22.
20 Cfr. Jesi nel 1979 proprio su Frobenius, CD, pp. 14-17.
21 E. De Martino, Prefazione (1965) in A. E. Jensen, Come una cultura primitiva ha concepito il mondo (1948), ed. it. Bollati, Boringhieri, Torino, 1992, p. 10.
22 Ivi, p. 11.
23 Cfr. MM, p. 36 ss. Si veda la sintetica ricostruzione che Marcello Massenzio, sulla scorta dell’opera di De Martino, propone in Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 24-25. L’epoca moderna degli studi è inaugurata dal Il sacro di Otto (1917) e caratterizzata dalla definzione di un’«autonomia categoriale del sacro», del mitico e del simbolico di ordine esistenziale nel quadro di un movimento complesso di influenze, convergenze e differenze di provenienze culturali, metodi e prospettive in cui trovano spazio etnologia (Frobenius, Jensen, Malinowski, Leenhardt), fenomenologia (R. Otto, Kerényi, Eliade, Van der Lew, W. F. Otto), sociologia (Lévi-Bruhl, Lévi-Strauss, Callois), filosofia (Cassirer, Bergson, Bachelard, Gusdorf), psicologia (Jung, Neumann).
24 Per il rapporto tra Jesi e la storia delle religioni, in particolare per quanto riguarda l’ambito italiano cfr. P. Angelini, Il guardiano della soglia, in «Studi filosofici», XIV-XV, 1991-2, cit., pp. 222-3: almeno fino ai primi anni settanta Jesi «evita di prendere posizione» disertando il dibattito italiano in particolare le posizioni di Brelich, De Martino; cfr. N. Spineto, Kàroly Kerényi e gli studi storici religiosi in Italia, in Studi e materiali di storia delle religioni, 69, 2003, pp. 385-410: se già Kerényi, con il suo stile poetico ed evocativo, metaforico e di complessa intepretazione in un clima storicistico come quello italiano era considerato un «dissidente» (Pettazzoni), Jesi, autodidatta, privo di titoli e filiazione accademica, antistoricista, critico letterario e di ancora più difficile lettura non poteva avere migliore fortuna.
25 V. J. Propp, Le origini storiche dei racconti di fate (1946), ed. it, Einaudi, Torino, 1949 poi Bollati Boringhieri Torino, 1972.
26 Oltre a Frobenius e Propp Jesi citava spesso i Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung e Kerényi, la Religione greca di Petazzoni. Cfr. ELM, p. 21.
27 Cfr. MM, pp. 36 ss.: «Parlare di “mentalità primitiva” come di “facoltà creatrice” siginificava far puntare il fucile non solo a De Martino, ma anche a Bianchi Bandinelli»; cfr. C. Pavese - E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, con Introduzione di P. Angelini; di Angelini vedi anche: La collana viola, in AA.VV., Studi antropologici italiani e rapporti di classe, Franco Angeli, Milano, 1980.
28 R. Ferrari, Saggio e romanzo in Furio Jesi, cit. pp. 34 ss.
29 F. Jesi, Le connessioni archetipiche, in «Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria», vol. I, 1958, ed. S.A.I.E., Torino, pp. 35.
30 Ivi, p. 36.
31 Ivi, p. 37.
32 Ibidem.
33 G. G. Jung, Prefazione (1924) a La libido. Simboli e trasformazioni (1911), ed. it. Bollati, Boringhieri, Torino, 1965, p. 10.
34 C.G. Jung - K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942), Bollati Boringhieri, Torino, 1972, pp. 224-5, (che Jesi conosceva nella edizione Einaudi del 1948).
35 F. Jesi, Le connessioni archetipiche, cit., p. 37.
36 CE, p. 19.
37 LM, p. 26 dove affermava la concezione di un simbolo significante che esclude la trascendenza, non rinviando ad alcun senso ulteriore se non a quello della sua immanenza.
38 S. Giedion, Leterno presente. Uno studio sulla costanza e sul mutamento: vol. 1. Le origini dellarte, trad. it di F. Jesi, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 94. A p. 83 Sartre (Limaginaire) è indicato come una delle fonti per una teoria autorefereziale del simbolo.
39 F. Jesi, Le connessioni archetipiche, cit., p. 38.
40 F. Jesi, La nozione di spazio-tempo nella lingua egizia classica (1959), p. 2. Archivio privato. Testo inedito conservato in più versioni, di cui una inglese inviata al «Jounal of Near Eastern Studies».
41 Ivi, p. 39.
42 CE, p. 19.
43 F. Jesi, Le connessioni archetipiche, p. 40.
44 Ivi, pp. 40-41; cfr. CE, p. 17-19.
45 F. Jesi, Studi cosmogonici, in «Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria», Torino, vol. I, 1958, ed. S.A.I.E., Torino, pp. 46-47. Cfr. 54 ss.
46 Ivi, p. 56.
47 Ivi, p. 55.
48 F. Jesi, Le connessioni archetipiche, cit., p. 37; cfr. p. 42-43.
49 Ivi, p. 43-44.
50 Ivi, p. 44.
51 F. Jesi, Larcheologia e i riflessi condizionati, dattiloscritto contenuto nel raccoglitore n. 4 dell’Archivio privato di materiali risalenti al 1958-60, p. 2. Impossibile risalire alla destinazione dello scritto.
52 «Un archeologo in azione ricorda quello Sherlok [sic] Holmes che si riduceva a studiare la composizione delle ceneri di sigarette per scoprire il nome dell’assassino: non vi è mezzo di indagine che sfugga al suo lavoro», ivi, p. 3. Cfr. C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia (1986), Einaudi, Torino, 2000, pp. 158 ss.
53 Ivi, p. 3.
54 Ivi, p. 3-4.
55 Ivi, p. 4.
56 Ivi, p. 4-5.
57 F. Jesi, Lorigine delluomo, in «Storia illustrata», anno XVI, n. 100, Milano, marzo 1966, pp. 94 ss. Il saggio affronta anche le implicazioni ideologiche del darwinismo, connesse agli echi del noto processo Scopes (il cosiddetto Scopes Monkey Trial che si svolse nel 1925 in Tennessee) e alla discussione in ambito cattolico (Pio XII, Humani generis, 1950).
58 Ivi, p. 95. Cfr. S. Giedion, Leterno presente, vol. 1, cit., p. 4: «La ragione per cui il simbolo compare così presto, prima ancora dell’arte, risiede nella natura stessa del pensiero dell’uomo. Il simbolo fu l’arma umana più efficace per sopravvivere a un ambiente ostile. In nessun campo l’immagine dell’uomo preistorico si mostrò attiva quanto nell’invenzione di forme simboliche».
59 Ivi, p. 96. Jesi ri rivolge al pubblico non necessariamente colto di una rivista come «Storia illustrata».
60 Cfr. anche la Prefazione (1972) di Mario Trevi ai Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1972, p. 6: «Si tratterà piuttosto di mostrare come nella natura puramente formale dell’inconscio si possano reperire le matrici universali dei temi mitologici. [...] Il mito non è per Jung l’archetipo, è bensì il prodotto del suo operare».
61 M, p. 88-89. La fonte citata è: C. G. Jung, La libido: simboli e strasformazioni, ed. it. Torino, Einaudi, 1965.
62 M, p. 89.
63 G. Didi-Hubermann, Storia dellarte e anacronismo delle immagini, cit. p. 109.
64 W. Benjamin, I «passages»di Parigi, ed. it. Torino. Einaudi, 2007, pp. 432 sg (la sezione Città di sogno e casa di sogno, sogni a occhi aperti, nichilismo antroplogico, Jung); cfr. G. Cuozzo, Langelo della melancholia, cit., p. 212.
65 Ad esempio ‘junghiano’ è il passaggio che Jesi sintetizzava con l’epressione più volte ricorrente «dall’ in me si pensa» all’«io penso» M, p. 69; cfr. anche Le origini delluomo, cit., p. 96.
66 D. Dubuisson, Mitologie del XX secolo, cit. p. 48.
67 E. Leach, Natura/cultura, in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1980, vol. 9, pp. 762-763.
68 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 72; su Cassirer cfr. pp. 78 e 212.
69 S. Moravia, Jesi, linterprete del mito, «Tuttolibri» de «La stampa», Torino, 1980, p. 4.
70 In particolare M, pp. 87 ss. e MM, pp. 98, 352.
71 L’ammissione di Jesi del debito nei confronti del maestro francese è confinata in un testo dalla pubblicazione postuma, Bachofen (B), p. 61.
72 Questa la critica che lo Jesi dei Materiali mitologici (1979) avanza verso lo strutturalismo.
73 A. Schmidt, La negazione della storia, (1969) ed. it. Milano 1972. Cfr. S. Moravia, La ragione nascosta. Scienza e filosofia in Cl. Lévi-Strauss, Firenze, Sansoni, 1969; F. Remotti, Lévi-Strauss. Storia e struttura, Torino, Einaudi, 1971;
74 R. Barthes, Introduzione (1959-60) a Il grado zero della scrittura (1953), ed. it. Lerici, Milano, 1960, p. 16-17.
75 J. -P. Faye, Violenza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, 1981, pp. 1098 ss.
76 Ibidem.
77 Nell’Archivio di Jesi vi sono pagine autografe sulla critica come «battaglia» risalenti al periodo 1958-61 che inducano a ritenere che già allora l’influenza fosse molto forte: cfr. W. Benjamin, La tecnica del critico in XIII tesi, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, (1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1983, p. 28). «I. Il critico è stratega nella battaglia letteraria; II. Chi non sa prendere partito taccia; III. Il critico non ha a niente a che spartire con l’interprete di passate epoche artistiche; IV. La critica deve parlare la lingua degli artisti. Perché i concetti del cénacle sono parole d’ordine. E solo nelle parole d’ordine risuona il grido di battaglia; V. Bisognerà sempre sacrificare l’obiettivià allo spirito di partigiano, se la causa per cui ci si batte lo merita.; VI. La critica è una questione morale. [...]; VII. Per il critico i giudici d’appello sono i suoi colleghi. Non il pubblico. E tanto meno i posteri; VIII. I posteri dimenticano o esaltano. Solo il critico giudica al cospetto dell’autore; IX. Polemica significa stroncare un libro in base a un paio di sue frasi. Meno lo si è studiato meglio é. Solo chi sa stroncare sa fare della critica; X. La vera polemica si lavora un libro con lo stesso amore con cui un cannibale si cucina un lattante; XI. Il critico non conosce l’entusiasmo per l’arte. L’opera d’arte è in mano sua, l’arma sguainata nella battaglia degli spiriti; XII. L’arte del critico in nuce: coniare slogan senza tradire le idee; XIII. Il pubblico deve sentirsi sempre smentito e sentirsi ugualmente rappresentato dal critico».
78 In uno scambio epistolare con Raffale Pettazzoni, Jesi aveva sottoposto alcune sue ipotesi al maestro in merito alla figura di Bès, ricevendo come risposta le seguenti indicazioni: «Il suo argom. è interessante, se riuscirà a provarlo - Quanto all'onnisc. di Bès, non mi pare abbia nulla a vedere con l'argomento», cit. in M. Gandini, Raffaele Pettazzoni negli anni 1958-1959, in «Strada maestra», n. 65, 2° semestre 2008, Quaderni della Biblioteca ‘G. C. Croce’, S Giovanni in Persiceto, Bologna, p. 36.
79 «I am convinced that this article is not ready for pubblication. The treatment appears extremely subjective and the language difficult to follow». Lettera a F. Jesi di K. C. Seele, editor del «Journal of Near easter studies», 2 luglio 1960, con la quale si richiedeva una differente versione dell’articolo Expressions of space and time in middle egyptian.
80 F. Jesi, Così Kerényi mi distrasse da Jung, (auto)intervista su un itinerario di ricerca, in «Alias», n. 30, luglio 2007, p. 21 (Testo inedito parzialmente pubblicato in MM, pp. 365, 367).
81 D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica. A proposito di Pasque di sangue e del «mestiere di storico», in Vero e falso. Luso politico della storia, (a cura di M. Cafiero e M. Procaccia), Donzelli, Roma, 2008, p. 154.
82 Ibidem; cfr. J. M. Lotman e B. A. Uspenskji, Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nellUrss, Einaudi, Torino, 1973.
83 Ivi, p. 155.
84 Cfr. C. Miglio, Metastoria, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, (a cura di R. Coglitore, F. Mazzara), Meltemi, 2004, Roma, pp. 272-282 (anche in http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/metastoria.html).
85 D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica, cit., p. 155-156.
86 Ivi, p. 160.

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