oggi parlo di me e del mio lavoro,
è bello rileggersi e vedere come il testo si è levigato e ha assunto l'aspetto di un pezzo finito, che agli altri apparirà vero,
nel farsi della scrittura, nel lavoro della riscrittura continua.
a noi stessi, nel migliore dei casi, un pezzo onesto, solido, equilibrato.
qualcosa che rimane e dirà domani - questo sei tu.
scrivere serve per riconoscersi
Scienza
della mitologia e mitopoiesi
Dopo il 1969 l’attività intellettuale di Jesi diventa sempre più
intensa. Dopo aver abbandonato la città di Torino e il lavoro di
iconografo presso la Utet egli si trasferisce sul Lago d’Orta e poi
in diverse località di campagna tra Piemonte e Lombardia; il tempo
per la concentrazione, la radicalizzazione dell’impegno politico e
la volontà di mantenersi con il lavoro free lance lo portano
alla realizzazione di un numero elevato di saggi e di progetti
editoriali.
Matura
in questi anni la scrittura folgorante, capace di inanellare temi
diversi in pagine di grande nitore e momenti di densa argomentazione,
che ha portato la critica a vedere nell’autore un genio poligrafo
di non facile comprensione: originale, eclettico, affascinante, non
rubricabile, prismatico, vulcanico, irriverente, antiaccademico, in
anticipo sui tempi ed eccezionale in tutti gli aspetti della breve
esistenza.
Rapido nei passaggi
e ricorsivo nelle argomentazioni, predilige il momento analogico a
quello filologico, che pure non ignora, basandosi su interpretazioni
e connessioni capaci di suscitare nel lettore rimandi tematici e
testuali e mostrandosi più interessato alla rielaborazione personale
che non all’edificazione di una teoria. Uno degli aspetti più
interessanti del metodo jesiano e della sua pratica testuale, che
mostra la vicinanza con la coeva decostruzione teorizzata da Derrida,
consiste così «nel rovesciare il più esplicito orizzonte di senso
di un testo cercando al suo interno quei marcatori testuali che
permettono di “adoperare” la loro lettera fino al punto in cui
inizia a parlare ciò “che nel testo è taciuto”» (Ferrari,
2007, p. 124).
Le
digressioni, che spostano il fuoco dall’asse principale per poi
ricomporre l’argomentazione con il palesarsi di inattesi legami,
sono una caratteristica della programmatica
«tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti
reagire tra di loro, il cui modello metodologico si trova nella
formula del conoscere per citazioni (che divengono schegge
interreagenti), di W. Benjamin» (Jesi, 1973, pp. 8-9).
Come si è detto, il critico berlinese è un riferimento importante
per la fusione di interessi culturali e politici, per la concezione
illuminista del lavoro intellettuale, per l’originalità della
scrittura e per una comune matrice ebraica, diasporica e laica, che
ha influito sul rapporto con la tradizione e sul concetto di
interpretazione. Rafforzato da questa affinità, il metodo
‘compositivo’ jesiano nasce dalla convergenza di spirito
iconoclasta e della situazione materiale di immersione totale nel
mondo della cultura. Jesi affrontava il lavoro intellettuale in modo
febbrile e con ritmi molto intensi, occupandosi di più argomenti
nello stesso periodo. Gli scritti mostrano
continui rimandi interni, rivelando l’appartenenza a una stessa
fase di riflessione e la persistenza di idee e intuizioni; il ricco
archivio, custodito dalla famiglia, documenta l’esistenza di
differenti versioni dei testi, il riutilizzo di materiali per
destinazioni differenti e conserva scambi epistolari con molti
studiosi che spesso erano banco di prova per i lavori in corso.
La
pratica di scrittura si sovrappone alla teoria della quale mostra i
segni, rispondendo alla spinta centripeta di uno sguardo capace di
collegare argomenti altrimenti destinati a non incontrarsi. Il
«conoscere per composizione, consistente nel disporre sul telaio
della pagina un gruppo di frammenti in modo che dalla loro
interazione reciproca nasca il momento gnoseologico» è
«un’operazione esegetica grazie alla quale ciascun frammento è
strumento esegetico dell’altro; e ogni operazione esegetica è
un’operazione ideologica» (Jesi, 2001, p. 215). Ovvero parziale,
situata e arbitraria, consapevole del coinvolgimento del soggetto che
compie l’esperienza conoscitiva.
In
Scienza del mito e
critica letteraria
(1976, poi 2002) si leggono alcune delle pagine più belle di Jesi
che mostrano la rilevanza autobiografica dei suoi scritti.
Il
vero luogo di nascita del mio approccio al mito e alla mitologia è
una stanza, per la precisione la grande anticamera di una vecchia
casa. Una parete è occupata da armadi a vetri di libri, che sono
sempre chiusi a chiave. Sulla parete di fianco, in cornice nera, è
appesa la storia nelle sembianze del decreto di un re di Sardegna che
autorizzava con la sua firma la costruzione della casa, anno 17**.
Sulla terza parete, dirimpetto ai vetri delle librerie, c’è un
quadro, un trompe-l’oeil:
biglietti semiaperti, schizzi, piccoli oggetti, che sembrano
appoggiati su un’assicella con tutte le venature del legno. Sotto
il quadro, un tavolino con un cassetto. E forse, una volta, il
contenuto sarà stato quello del trompe-l’oeil;
ma adesso ci sono dentro ferri diversi, pinze, tenaglie, succhielli,
e un ferro speciale, o meglio le due parti staccate di un ferro, di
un arnese, di una macchina lucida dai mille usi che, a seconda delle
necessità, dovrebbe poter servire da pinza, cacciavite, levachiodi,
martello, piccola scure. Le due parti sono, appunto staccate; per
unirle, come i pezzi di un paio di forbici, ci vorrebbe una vite
centrale che s’è perduta. Così un pezzo è ad un’estremità
cacciavite, dall’altre scure, e per giocare può servire molto bene
da pistola: la testa a scure fa da calcio, il corpo sottile a
cacciavite fa da canna. L’altro pezzo può servire allo stesso
scopo, ma meno bene: la testa a martello è un perfetto calcio di
pistola, ma il corpo sottile è un po’ curvo e si biforca
all’estremità per strappare i chiodi. Nella quarta parete,
dirimpetto alla storia, c’è la porta: la porta d’entrata con il
campanello, sulle scale, sul fuori. – In quest’ambiente, che
lascia fuori dalla porta un presente, il quale però ad ogni momento
può suonare il campanello ed entrare; in questo ambiente in cui la
storia è appesa ai muri e i libri stanno dietro a pareti di vetri
chiusi a chiave; in questo ambiente, da bambino, ho incominciato a
conoscere il mito. Il mito mi si è poi presentato, dopo molti anni,
come quell’arnese dai mille usi, che siccome s’era persa la vite,
era ridotto in due parti: due parti ancora usufruibili, certo, per
chi volesse fare del bricolage,
ma soprattutto usufruibili al bambino come arma da gioco. Da allora è
passato molto tempo; questo mio “modello” del mito è anche il
risultato di una ricerca nell’ambito della scienza della mitologia,
durata circa vent’anni (Jesi, 2002 a, pp. 19-20).
Sulla
base del gesto che trasforma il limite in risorsa, la chiave
personale diventa la peculiarità di un
possibile accesso al mito, oggetto misterioso come l’«arnese dei
mille usi» del ricordo d’infanzia. Riconoscendo come
il ‘mito’ sia difficilmente definibile, Jesi sancisce
l’impossibilità di conoscerne l’essenza nel deliberato intento
di non ricondurlo a una realtà originaria. Attorno al bisogno di
circoscrivere la questione si articola il momento
di intensa riflessione teorica, antropologica e politica
durante
il quale viene
messo a fuoco il paradigma della «macchina mitologica», coincidente
con la «funzione
mitopoietica, [...] la più importante delle modalità costitutive di
ciò che fonda, contemporaneamente, il politico e il potere, che è
il carattere costitutivamente relazionale della soggettività»
(Franchi, 2005, p. 161). L’edificio teorico che gli ruota intorno
si articola in alcuni punti essenziali, che conviene anticipare.
Poiché il mito in quanto tale è inconoscibile, tentarne un’indagine
vuol dire: a) studiare le modalità di costruzione del sapere
mitologico nelle sue forme storiche anche recenti; b) prendere in
esame la storia della storiografia relativa alla scienza del mito,
l’unica scienza della mitologia possibile; c) postulare una
struttura complessa di significazione, la «macchina mitologica»,
che produce ‘miti’ in ambiti quali il sacro, l’agire politico,
la scienza del mito, la letteratura; essa risulta di natura
linguistica e strettamente legata ai processi di ricezione e
interpretazione caratterizzanti la conoscenza in generale.
E. Manera, Furio Jesi, Mito, violenza, memoria, Roma, 2012, pp. 63-65
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