sabato 2 marzo 2013

post elezioni. Ancora questione di mito.






spesso gli studiosi tendono a essere ombelicali, credono che ciò che studiano sia IL problema principale da cui tutto dipende. Eppure. I recenti risultati elettorali che sono stati da più parti commentati testimoniano che l'approccio dei cittadini/elettori al voto è tutt'altro che razionale.
In altri termini: bisogna studiare il mito, che è sempre politico, in funzione critica, per disinnescarne l'effetto incantatorio.

Su Doppiozero GG Ricuperati (http://www.doppiozero.com/materiali/david-bowie/elezioni-fare-caos-ovvero-accendere-la-luce) sostiene che il berlusconismo/leghismo (incomprensibile e incondivisibile) e il grillismo (comprensibile ma incondivisibile) sono accomunati da «una visione cieca e manichea della realtà»; il M5S in particolare avrebbe un'«aura seduttiva», «particolare tipo di piede di porco che ha scatenato energie formidabili nella fragile democrazia italiana».
Si pensa in termini palingenetici ma è un «manipolo di istintivi di massa».
Ecco questo è quello che io chiamo 'mito politico', che va combattuto con gli strumenti della ragione; ma poiché senza miti non si vive, bisogna che la mitologia politica sia sostituita da una narrazione dell'immaginario sociale in grado di parlare e unire.
Come non so,non così come è stato fatto ora, di certo.
Molto bello il film di Roberto Andò, Viva la libertà, con un consueto magistrale Servillo. Che parla di questo.

Di seguito un Malera, entry level sul tema, recentemente a grande richiesta a Palazzo Nuovo per un intervento.








(non questo, che è un Burri, quello sotto)



Funzioni pratiche del mito nel Novecento.
Tecnicizzazione del discorso mitico e macchine identitarie

0. termini
Mito e mitologia, sono parole familiari, ma in realtà vaghe e polisemiche. La prima cosa che ci viene in mente è il grande patrimonio della tradizione epica dell’antichità, greca in particolar modo: quella che riguarda le «opere di uomini e dèi degne di ricordo» (Odissea I, 338). Una definizione di ‘mito’, che si trova in Esiodo, Platone e Plutarco è quella di «racconto che riguarda dèi, demoni, eroi, cose dell’Ade» (Repubblica, 392 a, 3-8).
Alla domanda che tutti i mitologi evitano come il fuoco - «Che cos’è il mito?» - si può rispondere con le parole di un importante studioso contemporaneo:
«esso si presenta sotto forma di racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo. In questo senso il racconto mitico non dipende dall’invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla trasmissione e dalla memoria» (Vernant 1999).
Tale definizione mette in luce la provenienza remota, pre-istorica di un patrimonio culturale che si è conservato per via orale e trasformato nei millenni ed è venuto a costituire una memoria culturale, cioè una summa di conoscenze e pratiche omogenee e note a tutti, articolate in varianti e versioni multiple, mai definitive e anzi spesso contraddittorie, che si definiscono per contrasto con il racconto storico (di cui non hanno l’esattezza) e che mantengono un ambiguo rapporto con dimensione letteraria (perché non c’è una dimensione autorale).
Occorre non dimenticare che, se tutti questi racconti ci sono noti, è perché sono stati scritti, ovvero snaturati nel loro essere flusso continuo e mutevole e fissati in modo arbitrario dalla scrittura, congelati nella consegna alla tradizione dalla filologia ellenistica che aveva bisogno di canonizzarli e unificarli in una biblioteca.
Nei racconti mitologici lo storico ricerca in una mitologia lo sfondo intellettuale di cui la narrazione è testimonianza: in essi sono depositate tracce di quella che Georges Dumézil chiama «ideologia», intesa come una concezione delle grandi forze dominano il mondo, gli uomini, la società e li rendono «ciò che essi sono». In questo senso ‘ideologia’ significa concezione del mondo, della storia, della vita, che non sono valutabili in termini di vero o falso, ma esprimono interessi, bisogni, aspirazioni dei diversi gruppi sociali.
La mitologia, come patrimonio di narrazioni mitiche, appare così come l’articolazione narrativa di una forma di pensiero, declinato nella storia, nella quale si incontrano forme sociali arcaiche, politiche, giuridiche, religiose e rituali come riflesso dell’immagine del mondo di chi le ha espresse. Una sorta di pensiero sociale di carattere obbligatorio, che agisce a livello inconscio: «una maglia di tela di ragno» (Mauss, 1923), che innerva di significato la vita di una comunità.
Noi non incontriamo mai il ‘mito’ al singolare: ma piuttosto alcune concrete manifestazioni della mitologia, miti al plurale, o meglio «materiali mitologici» (racconti, figurazioni, simboli, resti di culto, citazioni letterarie ma anche teorie che li spiegano).
Il singolare ‘mito’ è piuttosto usato dagli studiosi per indicare la funzione che può assumere: il mito come fattore culturale efficace e unificante, sul terreno dell’immaginario collettivo «serve, non solo a vedere, leggere e interpretare, ma anche a ordinare e perfino a costruire la realtà» (Di Donato, Un mondo mitico, p. 81).

Una mitologia nel mondo antico è costituita da racconti e immagini, espressioni di una visione del mondo che si riverbera in riti e pratiche quotidiane. L’immaginario collettivo di un gruppo umano costituisce il nucleo simbolico fondamentale che innerva di significato la totalità della vita delle comunità che in essa si riconosce.

1. funzioni
L’incontro di oggi vuole mettere in luce la funzione sociale del mito, partendo dal presupposto che prima di chiedersi ‘cosa’ il mito ‘è’, bisogna chiedersi ‘a cosa serve’: in quanto modalità di conoscenza veicolata dal linguaggio e dalla scrittura, forma di razionalità pre-scientifica e pre-filosofica, assolve funzioni teoretiche di orientamento generale, nello spazio e nel tempo. Il patrimonio di racconti mitologici, storia sacra, già per gli antichi aveva un valore di fondazione, permetteva di spiegare in modo elementare la genesi del mondo (ad esempio in Esiodo il fatto che le cose derivino dal Chaos e da lì arrivino fino all’epoca degli uomini in una vicenda di ordine progressivo e orientato); servivano a riconoscere antenati comuni che fossero eroi fondatori di una casata o di una famiglia reale (es Teseo per Atene, Cadmo per Tebe); ogni realtà locale aveva suoi ‘patroni’ e storie capaci di collocare il luogo e la comunità in un epos più complesso, divino e umano al tempo stesso.
Soprattutto la memoria mitologica permetteva ai Greci di sentirsi tali: i cicli omerici, mediante la grande narrazione di una guerra degli Achei, costruirono l’unificazione culturale e religiosa oltre la dimensione politico-amministrativa delle città stato. La loro forma di memoria culturale fu scritturale, e funzionò per unire tutti i popoli che si sentivano greci, parlanti la stessa lingua e devoti alle stesse figure divine.
La rete della mitologia, riflesso della vita religiosa, permetteva a ogni individuo di costruire la propria ‘identità’: ovvero di riconoscersi consapevolmente in un cosmo, in un popolo, in una comunità, in una famiglia, mediante il riferimento a un sapere condiviso, a una storia comune, e al patronato che diverse divinità gli offrivano a seconda del suo mestiere, del suo ruolo sociale, della sua età e del suo genere.
Le funzioni che il mito svolge sono simultaneamente teoretiche (riguardano il cosa del sapere), pratiche (riguardano come agire) e coesive (riguardano il noi), sviluppano cioè il legame sociale, senza cui l’individuo non può essere ciò che è.
Roger Caillois, sviluppando gli insegnamenti del suo maestro Marcel Mauss, sociologo e antropologo, propone una interessante etimologia della parola ‘religione’. Il termine deriva da religere, ‘tenere insieme, collegare’: anticamente religiones tramenta erant (Festo), letteralmente «le religioni erano dei nodi di paglia», ovvero con quel termine si indicavano i nodi di paglia che tenevano le travi dei ponti. Dai tempi di Numa Pompilio il sacerdote più importante di tutti era il pontifex, il pontefice, letteralmente colui che supervisionava la costruzione dei ponti, una violazione dell’ordine di natura immane (unire ciò che è separato), un sacrilegio che richiedeva quindi la celebrazione di rituali esorcistici adeguati per placare gli dei e rimettere ‘le cose al loro posto’.
Così il pontefice è colui che veglia sull’ordo rerum, sull’ordine delle cose, la disposizione dell’ordine dell’universo, mediante il controllo sulle pratiche rituali, dai sacerdoti alle preghiere, dalle feste agli oggetti liturgici. Perchè per gli antichi il sacro non è separabile dal profano, è ciò che tiene insieme tutti i pezzi altrimenti dispersi e frammentati del mondo naturale e sociale. Da questa importante funzione deriva il fatto che il mito continui ancora oggi a presentarsi come la voce del sacro. Qualcosa del mito, nuovi modi di pensarlo e nuovi significati continuano a funzionare nel legare insieme le persone intorno qualcosa, simile ai nodi che tengono le travi.

Un patrimonio mitologico, teologico prima e narrativo poi, assolve funzioni fondamentali per gli individui e le comunità, ripondendo a bisogni di conoscenza e di azione, di coesione sociale e di legittimazione dell’ordine e del potere che lo rappresenta.


2. mito, voce del verbo ‘naturalizzare’
La condivisione di una mitologia ha una importante funzione nella fondazione di un legame sociale e nella legittimazione del potere: in virtù del suo potenziale emotivo e della sua capacità comunicativa può fornire risposte alle domande generali sulla realtà e plasmare, in modo inavvertito, le coordinate elementari di senso del mondo in cui si vive. Fin dall’antichità il mythos è qualcosa che si presenta con l’autorevolezza della verità, realizza e consolida delle autoevidenze altrimenti arbitrarie facendole apparire ‘naturali’: esso significa «parola, discorso» ma anche «progetto, macchinazione, rivolta», è parola concreta, efficace che evoca il tempo trascorso ed ha l’autorevolezza di un passato consacrato (Jesi, 1973).
Come mostrano le teoria antropologiche, ogni cultura opera in modo da occultare quanto di arbitrario c’è nel nostro modo di vivere, presentandolo come il modo naturale di vivere, l’unico possibile. Non ci dice che tra tutti i possibili modi di vivere noi ne abbiamo uno qualunque: lo stato elementare di una cultura naturalizza e rende ovvi norme, valori, istituzioni, interpretazioni del mondo e della vita: le rende invisibili, trasformanandole in ordine intrinseco e senza alternative.
Così opera la cultura, tanto quella antica quanto quella moderna, in base a una doppia finzione: prima ‘finge’, modella, gli uomini in un certo modo, poi finge che quella non sia una costruzione culturale, ma sia vero. (Remotti, Prima lezione di antropologia, pp. 135-136).
Per fare questo il mito diventa progressivamente nella storia la voce del sacro, qualcosa di indispensabile alle religioni organizzate man mano che aumenta la complessità politica delle comunità di riferimento: il monoteismo sembra comportare in questo senso un salto di qualità nella legittimazione del potere tramite il riferimento al sacro quando nasce lo ‘stato’. Le religioni dell’antico Egitto e del mondo semitico vicino orientale sembrano aver elaborato forme di teologizzazione dell’ordine sociale (Assmann), mediante l’istituzione di un asso verticale tra terra e cielo: il faraone, figlio e sacerdote del sole, è il garante dell’ordine universale e della giustizia (Maat). Duplicare in cielo l’ordine terrestre significa oggettivarlo, riprodurlo mediante una riflessione mimetica, garantire la tenuta di un ordine politico immanente. Una ‘religione politica’ è nella storia delle idee politiche quel tipo di religione costituito da una proiezione delle strutture di una comunità politica nella realtà divina: ogni comunità politica è sempre incorporata nel contesto dell’esperienza del mondo e di Dio da parte degli uomini. (Vögelin).
Semplificando, si possono portare differenti esempi che avallano questo schema elementare di connessione tra etnogenesi e politica tanto nel politeismo (Numa Pompilio a Roma, gli Oracoli di Delfi e Dodona nell’Ellade), quanto nel monoteismo (Akenaton in Egitto, Jahwe in Israele, il cristianesimo per Costantino, la diffusione dell’Islam nella penisola arabica).

Il mito è un dispositivo sociale che produce cultura, ovvero struttura connettiva che garantisce identità: per fare questo si presenta come discorso di verità efficace, perché si mostra come ‘vero’ da sempre, ponendosi come origine e fondazione si sottrae a ogni domanda su di sé e occulta la sua artificialità, arbitrarietà e infondatezza.

3. mitodinamica e macchina mitologica
Ogni cultura, indipendentemente dai contenuti delle proprie narrazioni mitologiche, si costruisce sul mito, racconto di storia sacra variamente inteso: esso ha un potere performativo molto elevato, genera significato e significatività, produce ‘senso’. Così ogni società, antica o moderna, comporta una qualche forma di mitologia: il ‘mito’, o meglio la circolazione di materiali mitologici svolge una funzione fondamentale nella tessitura e nel funzionamento della struttura connettiva di una società.
Nell’ambito della teoria della cultura Jan Assmann (n 1938), studioso contemporaneo di mondo antico, ha elaborato in modo particolarmente chiaro il concetto di mitodinamica (Mythomotorik): il mito è un ricordo del passato che produce immagine di sé e speranza per obiettivi dell’agire, ha un riferimento narrativo al passato che lascia cadere luce sul presente e sul futuro.
Esso ha:
- funzione fondante, pone il presente sotto la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, necessario e immutabile. (Es: il mito di Osiri in Egitto, l’Esodo per l’antico Israele, il ciclo troiano per Roma; il Golgota per il Cristianesimo originario).
- funzione controfattuale, a partire da carenze del presente evoca un passato eroico, che rende palese la frattura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’: il presente è relativizzato rispetto a un passato migliore. In epoca di oppressione e impoverimento si possono sviluppare forme di messianismo e millenarismo. (Es: il ciclo omerico viene canonizzato con la decadenza di un sistema cavalleresco che si trasforma nella polis, celebra un tempo eroico precedente a quello della comunità democratica e dei sui rischi; la Repubblica romana nell’età imperiale, come regno della virtus e dei boni mores; il libro di Daniele per i Maccabei, immagine della purezza religiosa come resistenza a motivazione religiosa contro i tentativi ellenistici di assorbire il giudaismo).
La definizione del mito diviene così pertinente al suo significato e alla sua funzione in un determinato contesto di ricezione e di uso politico, ovvero quella di formare l’immagine di sé e guidare l’agire nel presente: la mitodinamica è la forza orientatrice per un gruppo a partire dai suoi bisogni, in particolare le emergenze che richiedono un ‘di-più’ di significato. «Il mito non ‘è’ qualcosa. Qualsiasi cosa può diventare un mito». (La memoria culturale, p. 51-52).
Più che di miti si parlerà allora di una ‘macchina’ che genera i significati condivisi sotto forma di «materiali mitologici», i quali operano nella stabilizzazione delle identità individuali e collettive, ovvero le appartenenze consapevoli a un gruppo o a una società.
Nella teoria di Furio Jesi (1941-1980) la «macchina mitologica» è il dispositivo risultante dall’incrocio di relazioni di sapere e di potere, che fabbrica mitologie, produce forme di conoscenza come se fossero verità indiscutibili: essa è articolata in funzioni (il ruolo svolto nel processo di elaborazione e ricezione), mediatori (i soggetti attivi in tale processo) e depositi (i luoghi e il ‘patrimonio’ di idee e immagini veicolate).
I «materiali mitologici» sono i prodotti delle macchina in forma di racconti, opera letteraria, documenti, monumenti e qualsiasi forma di testo o traccia riconducibile all’operare della macchina. Di per sé neutri, essi sono resi mitologici dalla circolazione linguistica.
Assistiamo così a uno spostamento dell’asse, nella definizione del ‘mito’ dal contenuto dei racconti, il ‘cosa’, alla modalità del raccontare, il suo ‘come’. Il verbo mythologheuein (= mitologizzare, in Detienne, p. 107) era già presente nell’Odissea con il significato di «raccontare di nuovo»: questo dettaglio suggerisce il carattere ripetitivo del luogo comune, del cliché, come pratica mnemotecnica. La ripetibilità è un requisito fondamentale di ogni immagine mitica e simbolica (Bachofen, 1859 e Blumenberg, 1979): stabile e immobile appare sovratemporale e come tale in grado di essere riattivata in ogni circostanza, producendo a seconda dei casi la rinascita periodica che si verifica nel rito e quell’effetto di rassicurante stabilità e di naturalizzazione del mondo.
Perciò ‘mitologie’ sono le storie raccontate da sempre e riprese di continuo: «le raccontavano una volta e le racconteranno ancora» (Platone, Politico, 268 e 4-10). Vecchi e bambini adorano ripetere e sentire ripetere le storie: se i primi hanno bisogno di stabilizzare la memoria di una vita che se ne sta andando, i secondi hanno bisogno di fermare e rendere coerenti una massa multiforme di sensazione, pensieri e immagini che diventeranno la realtà che condividiamo. Con la stessa dinamica, dai tempi più antichi e mutatis mutandis fino all’età contemporanea, a forza di sentire ripetere qualcosa gli esseri umani adulti finiscono per considerarla ovvia, come un pezzo di natura.

La mitologia è frutto di una macchina identitaria che non funziona da sola, ma come strumento di comunicazione efficace al servizio delle idee. Tutte le narrazioni e i saperi pubblici hanno sempre un contenuto ideologico e vivono nella ricezione, sempre storicamente situata. La loro presunta autonomia è sempre relativa e negoziata: i miti non sono mai non-pensati.

4. mito tecnicizzato: la modernità e le masse
All’origine della riflessione sul mito come modalità di conoscenza vi sono le riflessioni portate dall’uso del mito fin dal primo Novecento. L’età contemporanea ha conosciuto il volto oscuro del «mito tecnicizzato», quell’elaborazione strumentale di immagini che punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del mito come strumento di incantamento.
Il padre nobile di tali studi può essere considerato Karoly Kerényi (1896-1973) che ha proposto la distinzione tra «mito genuino» e «mito tecnicizzato»: il primo è forza che «afferra e plasma» la coscienza dell’uomo arcaico, forma spontanea e disinteressata della psiche, sorta di griglia trascendentale e di facoltà immaginativa costituente dentro la quale si compongono gli elementi della realtà di un gruppo sociale. Esso riguarda l’antico, è perso per sempre e non ci è dato conoscerlo.
Viceversa il «mito tecnicizzato» utilizza e strumentalizza un processo mitodinamico per ottenere degli effetti concreti di azione o mobilitazione politica, quando nell’età contemporanea, a partire dalle riflessioni sulla società di massa, si pone il problema di riconsolidare forme di dominio e di comunicazione.
Il Doctor Faustus di Thomas Mann elabora esplicitamente la questione, così come era posta nelle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel 1906: «nel secolo delle masse la discussione parlamentare doveva risultare assolutamente inadatta a formare una volontà politica (…), bisognava sostituirvi un vangelo di finzioni mitiche destinate a scatenare e a mettere in azione le energie politiche come primitivi gridi di battaglia. La rude ed eccitante profezia del libro era in sostanza: che i miti popolari, o meglio fabbricati per le masse sarebbero diventati il veicolo dei moti politici: fiabe, fantasie e invenzioni che non occorreva contenessero verità razionali o scientifiche per fecondare, per determinare la vita e la storia, e dimostrarsi in tal modo realtà dinamiche».
Il libro di Sorel ebbe un’enorme diffusione e effetti notevoli. Il fascismo europeo del Novecento ha fatto largo uso del mito in Germania con la razza ariana, il germanesimo, la lotta e la potenza, il sangue e il suolo. Ma se estendiamo il ragionamento alle modalità di propagazione e all’uso sistematico della persuasione anche in Italia possiamo parlare di mitologia, con la romanità o con la giovinezza, la prolificità e l’impero, o più banalmente con il mussolinismo. Analoghi ragionamenti possono essere fatti per esperienze simili di cui i fascismi europei sono stati veri e propri laboratori.
George L. Mosse ha chiamato «nazionalizzazione delle masse» (1974) questo processo di direzione dell’agire collettivo delle masse, il nuovo soggetto emergente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sulla base dell’ideologia come «arte di dirigerne l’immaginazione», per creare una comunità di fede e di sentire.
Furio Jesi in Cultura di destra (1979) identifica nelle «idee senza parole» (espressione di Spengler, l’autore de Il tramonto dell’Occidente) il fulcro di un sistema di tecnicizzazione del mito, ovvero di quella strumentalizzazione politica del linguaggio volta a costruire un apparato rituale per coinvolgere gli individui nella comunità vivente della nazione all’interno di un progetto totalitario.
Tale abuso del sistema di ‘produzione della verità’ serve realizzare l'omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia ‘amico/nemico’, ‘noi/loro’, con la santificazione di un modello di dover-essere a cui tendere e la demonizzazione dell'altro, il diverso, il nemico interno, sul quale vengono proiettati tutti gli aspetti negativi: così l’uniformazione della cultura, l’uso dei sistemi di comunicazione di massa e l’inquadramento della popolazione mediante gruppi omogenei di età e ruoli possono servire i progetti di edificazione dell’ ‘uomo nuovo’.
La tecnicizzazione fascista mostra in maniera macroscopica ed evidente come i contenuti della propaganda fossero una mitologia, artificiale e fraudolenta, capace di surrogare la violenza nelle fasi di consolidamento del regime con la mobilitazione della cosiddetta ‘zona grigia’: in una costruzione ideologica ciò che è importante non è il suo grado di verità, ma il suo livello di integrazione e omogeneità, in altri termini la sua efficacia performativa, che deriva la sua forza dall’immediatezza del simbolo e dalla sua capacità di semplificare la realtà. Oltre alla violenza della repressione esiste la capacità di creare consenso attraverso la persuasione, grazie all’ideologia come forza motrice dei sistemi totalitari. Il culto del leader nella stabilizzazione del potere dei regimi totalitari avviene con il salto di qualità dovuta alle nuove tecnologie di massa e all’uso sempre più spregiudicato della dimensione fabulatoria, pensata per un «popolo bambino» (Gibelli) che, fin dai soggetti in più tenera età, aveva ‘bisogno’ di rude paternalismo, sapiente menzogna e continua blandizia.

Tecnicizzare il mito significa intensificare consapevolmente un processo mitodinamico, partendo da una posizione di potere, per ottenere degli effetti concreti di azione o mobilitazione politica servendosi del dispositivo della comunicazione, modulandone ritmo e intensità, contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola frequenza e pervasività, come avviene nella gestione totalitaria dei mezzi di comunicazione di massa.

5. tarda modernità: economia e politica
Ci allontaniamo sempre di più dall’antichità per una breve e impressionistica panoramica delle direzioni che lo studio della mitologia ha preso nel Novecento. A partire dalla necessità di demistificare l’ideologia, dalla riflessione sulla fotografia, sull’immagine, sull’illusione di verità e sulle strategie di persuasione, Roland Barthes (1915-1980) ha inaugurato una fortunata stagione di studi sulla mitologia come modo di espressione e come processo continuo di semiotizzazione: con Mythologies (1957) ha mostrato che ogni cosa può diventare un ‘mito’, arrivando a individuare nuove forme di mitologia in territori completamente desacralizzati.
Si può parlare di mitologia all’interno delle moderne democrazie, con la pianificazione di campagne ideologiche e pubblicitarie. Gli Stati Uniti fin dagli inizi del XX secolo sono stati i pionieri del modello economico capitalista e di sviluppo fordista, e quindi dell’industria culturale, che ha dato luogo a nuovi modelli culturali.
Come non vedere almeno un pallido riflesso della funzione di creazione delle identità in tutte quelle forme di narrazione di consumo o di genere di cui gli esseri umani sembrano non stancarsi mai? Dai fumetti alla letteratura di genere, dai colossal cinematografici fino alle fiction televisive, il nostro mondo, i nostri pensieri e la nostra cultura sarebbero impensabili senza questa nuova dimensione mitologica.
I mass media sono da tempo riconosciuti come potenti fattori di socializzazione: producono informazione e modelli di pensiero, veicolano rappresentazioni collettive, omologano stili di pensiero e di vita, naturalizzano la realtà e come si è visto, possono renderla funzionale al potere. Qualsiasi critica dei mass media non può essere separata da considerazioni sul mercato, sulle logiche dell’induzione al consumo, che a partire dalla pubblicità sono inseparabili dall’industria culturale. In tutto il mondo ‘occidentale’ dal secondo dopoguerra in poi la propaganda, un tempo definita persuasione occulta, ha accompagnato la storia del costume e dell’immaginario, dando vita a quella situazione in cui dimensione politica e di consumo appaiono sempre più inseparabili. La macchina mitologica contemporanea da tempo è quella del potere dell’immaginazione pubblicitaria: le mitologie del quotidiano vanno ricercate ad esempio nell’estetizzazione e nell’ossessione stilistica che accompagna i nostri consumi. Automobili, abiti, creme di cioccolato, zainetti, prodotti per l’hi fi e dispositivi tecnologici, ma perfino cibi biologici e libri, sono merci corredate da un sovrappiù di significato che celebra e rende onore al dio del mercato, il vero trionfatore dell’epoca della globalizzazione.
La critica di origine marxista e di impronta francofortese si è spinta ancora oltre, e le stesse categorie possono tornare a essere utili per una riflessione sulla politica contemporanea e sulla crisi di legittimazione della democrazie parlamentari.
Diversi osservatori contemporanei sostengono che la stessa nozione di ‘cultura’ è usata in modo mitologico: il recente dibattito sul relativismo culturale e sul cosiddetto ‘scontro di civiltà’ teorizzato da Huntington sembrano confermarlo. Le differenze tra gruppi umani vengono esasperate fino a far sparire gli individui per servire politiche economiche e strategie globali (quelle dell’amministrazione repubblicana degli Usa) che necessitano di accettazione pubblica, dimenticando però che le culture non sono sostanze che sovradeterminano gli individui, ma sono descrizione idealtipiche “buone per pensare” continuamente mutevoli e rinegoziate (Aime).
Nella stessa direzione va il potente ritorno alla legittimazione localistica e alle comunità inventate: è ormai diventato un case study significativo l’uso retorico che la Lega Nord fa della cosiddetta Padania, una vera e propria «invenzione della tradizione» pensata per servire gli interessi regionalistici ed economici di alcune fasce di comunità regionali. Ma non è che un esempio di una costellazione di fenomeni in cui l’identità culturale, con annesse mitologie, viene brandita come una clava per servire interessi politici. L’integralismo islamico si serve sostanzialmente delle stesse logiche, additando la purezza di un Islam ideale e immaginario, che nella storia non si è mai dato, ma il cui potenziale di riscatto si dimostra nella forza di propagazione in aree geografiche che versano in situazione di grave crisi politica, culturale ed economica.
Con l’età della globalizzazione i movimenti di spossessamento dell’identità (integrazione transnazionale politica, economica, culturale) sembrano provocare per reazione una chiusura di segno uguale e contrario che spinge a una torsione sulle pratiche identitarie, intese come miti unificanti e riti di legame per servire dinamiche politiche bisognose di legittimazione.

Studiare le teorie contemporanee del mito può fornire spunti di analisi dei meccanismi di definizione delle appartenenze e delle pratiche condivise nelle società globalizzate e aiutare a svelare le tecniche di retorica della manipolazione veicolate dai mass media.

6. Mitologia della ragione
Un altro aspetto del dibattito filosofico recente viene dalla Germania negli anni settanta ed è noto come Mythos Debatte: riguarda la possibilità di ‘salvare il mito’, a partire dal suo potenziale umanistico, emancipativo e rischiaratore, non necessariamente compromesso con l’irrazionalismo ma anzi portatore di una forma propria di razionalità.
Platone era stato il primo a voler usare miti educativi e funzionali allo stato ideale (Repubblica, Leggi) contro la degenerazione della talassocrazia ateniese, così come il movimento dei pre-romantici di Tubinga e Jena sognava una nuova «mitologia al servizio delle idee» (Das älteste System-programm des deutschen Idealismus) in grado di risanare la frattura tra Stato e Società tipica del moderno. Fin dall’antichità è noto il valore del mito e la sua capacità umanistica di «guarigione» dalle crisi di senso che il nichilismo, il «più sgradevole degli ospiti», sembra portare con sé.
Nei due esempi citati vi sono sullo sfondo due differenti crisi etico-politiche, l’Atene del IV secolo o l’Europa post-rivoluzione francese: in entrambi i casi vecchie fedi subiscono erosioni e perdono legittimità sotto gli effetti di nuove dinamiche economiche e nuove prospettive culturali, così le antiche memorie vengono riattivate e rinnovate da filosofi che vogliono usare il mito come ‘utopia della ragione’. Ma è stato osservato che in entrambi i casi vi sia il rischio di fornire idee alla tecnicizzazione del mito: Platone è stato accusato di essere il padre dei totalitarismi e il romanticismo tedesco la culla del nazismo. Al di là della radicalità o della effettiva validità di certe ipotesi storiografiche, la conquista del potere è effettivamente in grado di sfigurare e rendere mostruose anche la più sincera della intenzioni, e ciò che sembra buone per gli intellettuali nella prassi politica si trasforma in un precipitato differente, sfigurato e semplificato.
Sembra così, secondo autori come Blumenberg, Frank, Marquard, che l’unico modo di far valere la mitologia nel novecento sia nella letteratura e nelle varie forme di narrazione.
Che la letteratura sorga da forme di secolarizzazione di contenuti mitologici è noto ed accettato: dai tempi di Apuleio e del romanzo ellenistico, fino alla modernità occidentale e al romanzo borghese, la narrazione dell’interiorità, quella dell’autore che si rivolge alla riflessione sull’interiorità percorre questa strada. La creazione diviene sempre più la ricezione articolata e poietica di un flusso continuo di topoi, figure e tematiche in continua ridefinizione. Parlare di mitologia in senso di alleggerimento dal legame con il sacro e dalla funzione fondazionale significa allora fare appello a quel potenziale liberatorio e intrinsecamente illuministico del mito, il suo essere luce dell’utopia, che proprio perché mai venuto alla luce ha ancora il vantaggio di non essere corrotto. Come il racconto nella notte dei tempi liberava dalla paura del buio e dall’assolutismo della realtà, sconosciuta e incontrollabile, così la funzione del mito sembra essere quella di poter ancora emancipare da nuove forme di terrore e assolutismo e di rendere più facile la vita per gli uomini.
Privo di una dimensione di fondazione metafisica o politica il mito non si oppone specularmente e in modo ingenuo alla ragione, ma si fa ragione esso stesso» (Cometa, Mitocritica). Le cosidette mitologie della ragione appartengono alla ragione, in quanto indagano e riconfermano la soggettività e l’umano all’interno del discorso mitico che altrimenti tenderebbe a dissolverla. Si tratta in sintesi di far valere la contrapposizione tra la Urmythologie (mitologia dell’origine) e dall’altro la Dichtermythologie (mitologia poetica), ovvero la rivalutazione del mito come «sostanza dell’essere e del suo inveramento nella storia» contro le mitologie della ragione come riscrittura poetologica delle fabulae con valenza comunicativo-sociale» (Frank 1982, Cometa 1989).
Rifiutando il mito come legame con l’essenza religiosa dell’universo e al già-stato, e come fonte di fondazione di ogni accadere, la narrazione può essere ancora una sorta di utopia estetica come occasione d’avventura in territori non strettamente riducibili alla razionalità, ma altrettanto umani e necessari allo sviluppo armonico dell’umanità. Così va inteso l’uso della mitologia, del rapporto con una tradizione culturale, che viene fatto ad esempio nell’opera di Thomas Mann, che nel ciclo di Giuseppe si rivolge al mito biblico in modo ironico o, nell’opera di Brecht, che rilegge le tragedie ma inserisce l’estraniamento: sono forme che mantengono un equilibrio tra il veicolare significati forti e la necessaria distanza tra opera e lettore.
Credo che vadano in questo senso le riflessioni di Calvino sul romanzo nel Novecento nelle Sei lezioni per il terzo millennio, in modo tale da poter salvare attraverso la qualità della letteratura il mito. È lo spazio che separa la realtà dalla finzione che salvaguardia la caduta dell’allegoria in idolatria.
Ogni opera d’arte (letteratura, cinema, teatro etc) in quanto discorso comunicativo dovrebbe cercare di stare in equilibrio tra i due diversi e opposti rischi, quello della caduta nell’irrazionalità emotiva e nell’immedesimazione che non fa distinzioni e quello della razionalizzazione didascalica e moralistico-ideologica che fornisce ricette semplificate. Tale insomma da permettere a chi ascolta di essere capace di ascoltare le narrazioni, senza mai smettere di riflettere, in stato di veglia, sull’emozione che il mito genera. E di lì partire per arrivare altrove, per un modo di essere alternativo all’agire strumentale della società tecnica, strategico e subordinato a economia ed amministrazione, come correlato di una teoria multiculturale della democrazia basata sull’accordo discorsivo degli interessati, nello spazio pubblico del dialogo e nelle forme del pluralismo, del rispetto e dell’ascolto.
La «macchina mitologica» guidata in modo non ideologico non potrà generare valori, ma almeno li potrà solo servire. I valori sono già nella storia e nelle vicende umane che li hanno forgiati: diritti umani, costituzioni, protocolli sull’ambiente e a favore degli animali, per una prospettiva democratica e progressiva in senso ecologico e planetario. Ora si tratta di salvaguardarli.
Si tratta insomma di pensare che la mitologia possa ancora affermare il primato del non essente su ciò che è, nelle forme di un’etica dell’irrealtà che dice ciò che potrebbe essere.

Se il mito è dappertutto è perché non possiamo farne a meno. Nel rifiuto della dimensione metafisica che sottostava al mito, l’unico modo possibile per accostarsi alle sue forme contemporanee e forse servirsene sembra essere riconoscerne la sua significatività, per farla vivere in modo leggero, ironico e critico: come materiale per la produzione di arte ‘dell’uomo sull’uomo’ allora il mito potrà ancora conservare una dimensione critica, mostrando nel presentarsi quanto di costruito c’è al suo interno, opera e backstage al tempo stesso.

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