mercoledì 14 agosto 2013

Economia. Capirla oltre che farla.


Ecco una recensione, versione lunga, di un libro importante sul presente.
Per il ferragosto di chi è rimasto o non è mai partito.








Giovanni Leghissa, Neoliberalismo. Un'introduzione critica, Mimesis, 2012

Per quanto amara possa essere, la crisi dell'economia mondiale potrebbe avere quantomeno la funzione di creare le condizioni di attenzione per un'intensa analisi critica dell'aspetto dogmatico assunto dall'economia come la conosciamo. Essa è nella sua struttura logica e nei quadri mentali dei suoi attori alla radice dei problemi drammatici che moltissimi stanno vivendo, in Italia e più in generale nell'area geopolitica che fino a qualche anno fa si pretendeva modello di sviluppo universale. Tra le ricerche recenti il libro di Giovanni Leghissa, un filosofo specialista di epistemologia delle scienze umane, si presenta come un'agile (ma teoricamente densa) disamina che riesce simultaneamente a chiarire le idee al lettore colto che si interessi alla questioni economiche e a fornire una preziosa sintesi operativa e un aggiornamento bibliografico allo studioso. Il lavoro del ricercatore triestino, docente nell'ateneo torinese, riempie quindi un vuoto concettuale (ed editoriale) avvicinando le orbite, spesso inconciliabili, degli studi filosofici e di quelli economici, permettendo a un pubblico afferente a diversi ambiti di recuperare conoscenze per lo più ignote ai non specialisti.

Il primo pregio di Neoliberalismo è di aggirare, tenendola sulla sfondo, l'analisi marxiana del reale, tendenzialmente spuntata nella misura in cui lo stesso marxismo si è configurato come verso di una medesima concezione economicista. A livello di rappresentazione sociale collettiva un sogno del marxismo, sempre più confuso e sconosciuto nei suoi fondamentali, è diventato aspetto di una «rivolta malinconica» – si lamenta una perdita senza sapere cosa si è perduto e perché – contro la condizione attuale. Il 'capitalismo' tout court diventa un mostro proteiforme e onnipotente dai contorni vaghi e dalle mosse imprevedibili, mentre al contempo la merce, dal cui acquisto fasce sempre più ampie di popolazione sono progressivamente estromesse, viene esposta nei centri commerciali (o in rete) e si fa forma fantasmatica del potere di acquisto, a sua volta estenuazione del potere sulle condizioni materiali di conduzione delle proprie vite. Per non dire di come l'antagonismo politico, perdutasi la forma partitica insieme al sistema fordista e divenuta problematica quella del movimento insieme alla militanza, possa diventare «oggetto di consumo» e attitudine estetizzante con tenui o vaghi legami con le condizioni di chi lo esprime. Non è un caso che Leghissa abbia dedicato ampi studi alla filosofia del mito e delle mitologie e che, in questo caso, abbia voluto decostruire le scienze economiche riassegnandole alla sfera delle scienze umane per mostrare come alle radici dei problemi attuali ci sia la naturalizzazione dell'economico pienamente realizzata dal secondo dopoguerra.
La via dell'argomentazione passa attraverso l'ontologia dell'attualità di Michel Foucault, il cui lavoro di critica del presente si presenta come problematizzazione e chiarificazione di ciò che in prima istanza si presenta ovvio e senza alternative. La critica dell'economia neoliberale si inserisce dunque nel più vasto ambito dell'analisi dei processi di «soggettivazione», i processi di natura sociale e culturale mediante i quali i soggetti si definiscono e si riconoscono come tali, agendo secondo patterns e scenarizzazioni già date, non apertamente scelte e solo in parte consapevoli. Il mondo economico del neoliberalismo viene definito e analizzato in quanto «dispositivo ‘governamentale’»: una antropotecnica (o fattore di produzione di forme di vita) del sistema di ingegneria sociale correlato all'autorappresentazione poietica dell'homo œconomicus. All'ultimo Foucault e ai corsi tenuti al Collège de France si deve quindi la delineazione del neoliberalismo come «cifra di una condizione, di un modo di essere – e precisamente quel modo di essere in cui il governo della vita trova la propria giustificazione negli effetti di verità del discorso economico» (p. 34).
Fedele all'impostazione di una «etnologia interna alla nostra cultura», la genealogia del neoliberalismo è ricostruita con perizia dal punto di vista storico attraverso i suoi snodi nel moderno (la ragion di stato, la polizia) e le sue teorizzazioni (scuola austriaca, ordoliberalismo tedesco, scuola di Chicago), per i quali il neoliberalismo è soprattutto «arte di governo», intesa come definizione e dispiegamento di un regime di pratiche in cui il soggetto è parte attiva. Com'è noto, per Foucault il potere moderno si esercita in istituzioni disciplinari che hanno un «potere di normalizzazione» e lavora in modo «microfisico» permeando ogni piega della società. Esso si incarna dunque non tanto nei simboli e negli eventi dell'uso pubblico e del monopolio legittimo della violenza (come in Weber) quanto in una miriade reticolare di campi di forze in tensione che coinvolge tutti gli individui all'interno di più meccanismi impersonali, per indicare i quali viene appunto usato il termine «dispositivi». Biopolitica significa la serie di strategie anonime in cui si realizza un potere opaco, esercitato sulla vita delle persone e caratterizzato da controllo dei corpi. Il neoliberalismo rappresenta il grado storicamente più elevato di dispersione del potere nel sistema, o la sua dislocazione punteggiata nella società, che è il correlato degli interventi dei governi.
L'expertise, la misurazione e la razionalizzazione tecnicizzata (fino ai i “governi tecnici”) sono gli elementi operativi di un'amministrazione del vivente coordinato sulla base di una griglia che è il dispositivo neoliberale, un intreccio il cui esito ultimo è la metaconduzione delle condotte individuali che ha dato vita all'«aziendalizzazione del sociale» in cui il mondo umano tende a scomparire dietro alla concezione dell'impresa. Qui la legge economica mostra il suo volto “totalitario” e volto all'«inserimento di ogni atto comunicativo in una catena di operazioni sistemicamente rilevanti atte a produrre efficienza, a ridurre costi, ridondanza, incertezza», ovvero i tratti tipici dell'umano.
Si tratta dunque di analizzare la «macchina che produce la verità del neoliberalismo», una «macchina discorsiva e istituzionale che fa circolare i discorsi che vengono riconosciuti come veri», piuttosto che smascherare l'aspetto ideologico in nome di una verità che starebbe altrove. Lungi dal neutralizzare l'aspetto di prassi politica che ne deriva dissolvendo la condizione materiale – questa è la critica marxista al post-moderno – il vantaggio che deriva dall'impostazione post-strutturalista è mostrare con più radicalità, a partire da una concezione antropologica e sociocostruttivista della realtà, l'artificialità della finzione (nel senso etimologico) neoliberale come complesso contingente e determinato, a cui si può e si deve, auspica l'autore, reagire con un adeguato gesto di contro-scenarizzazione che chiama in causa le posture esistenziali per l'edificazione cosciente e collettiva di differenti forme di vita associata, produzione, distribuzione.
La demitizzazione delle retoriche che accompagnano l'affermazione delle politiche economiche del tardo XX secolo mostra come il discorso neoliberale non sia un destino evitabile ma una condizione storica, in quanto tale passibile di trasformazione e di mutazione, a condizione di comprenderne il carattere procedurale e meccanico. Si tratta dunque di condurre un'operazione di disincantamento rispetto al «linguaggio della razionalità economica come unica cornice narrativa per conferire senso e intellegibilità alle proprie vite» (p. 10).

Altro tratto cruciale del libro sulla scia dell'analisi foucaultiana è la messa in chiaro dello strumentario teorico per l'analisi dell'epoca che stiamo vivendo, in cui la “crisi” più che il fallimento di un sistema appare come la sua dimensione estrema. Cosa è dunque il neoliberalismo? Qual è la sua specificità rispetto al liberalismo? Mentre nel liberalismo la sfera politica e quella economica risultano sempre distinguibili, nelle logiche e nelle pratiche nella «condizione neoliberale» ogni decisione sul governo delle vite passa attraverso il filtro della razionalità economica, rendendo inutile e impossibile la distinzione tra economia e politica.
Questo, lungi dal significare la sparizione del politico, significa «che le agenzie di governo dipendenti dagli stati si comportano come attori economici, si mescolano al gioco dei mercati, e misurano l'efficacia della propria azione in base a criteri che non lasciano più spazio per un discorso sulla giustizia» (p. 10). Per Leghissa non è lo Stato a scomparire in favore dell'economia: «ciò che scompare, nello spazio politico dischiuso dalla condizione neoliberale, è quella declinazione del politico che comporta conflitto e che demanda alle istituzioni statali (…) la gestione del conflitto» (p. 23).
L'ordine economico apparendo naturale risulta non negoziabile, a dispetto del paradosso per cui un sistema pensato per la produzione di beni e ricchezza produce emarginazione per i medesimi soggetti; allo stesso modo, venuto meno il potenziale trasformativo dell'utopia ormai condannata alla sfera dell'impossibile e della violenza da una sensibilità post-totalitaria, l'impoliticità (per non dire l'indifferenza) diviene una virtù pur convivendo accanto a forme diversificate di solidarietà in un medesimo orizzonte, che non prevede né ammette mutamenti sostanziali.
Viene così riconfigurata la visione della globalizzazione: come serie di processi all'interno dei quali grande potere viene acquisito su scala mondiale «da una serie di attori che agiscono nei mercati globali al di fuori del controllo statale» proprio grazie a «specifiche decisioni politiche» prese dagli stessi governi. Non siamo dunque al «ritrarsi dello Stato», ma di fronte al volto più recente della governamentalità e di quella «diffusione dei centri di potere che formano una rete complessa, all'interno della quale le istituzioni giocano un ruolo fondamentale» (p. 76-77).
In questo quadro si inserisce anche il pensiero post-coloniale, che solo il ritardo culturale italiano impedisce di percepire come una pagina centrale della contemporaneità e un paradigma per il suo studio. Per Leghissa le politiche economiche neoliberali dell'Africa sub-sahariana sono caratterizzate infatti dall'«uso creativo» che è stato fatto dalle élite dominanti delle «risorse offerte dai poteri statali per accrescere il proprio dominio», all'interno di un'integrazione dei vari soggetti economici istituzionali internazionali. Qui la biopolitica si rovescia nel suo opposto e diviene necropolitica come estrema conseguenza di politiche internazionali, accompagnate dalla segmentazione etnico-classista e dal relativo repertorio di narrazioni identitarie, ancora implicitamente razzisteggianti. Senza voler giungere a scenari apocalittici per il futuro dell'Europa è innegabile che la società globale si muova tra due estremi cetuali: da un lato il «vertice che abita l'élite finanziaria e dei servizi» (la «Disneyland dei grandi» che si ritrovano a Davos magistralmente descritti da Carrère) e dall'altro la popolazione straniera esclusa dai diritti di cittadinanza e sottoposta a controlli, restrizioni, limitazioni (quando riesce a superare i bastioni della fortezza europea). Mentre l'immaginario magnetizza i desideri verso il primo polo, la realtà spinge le masse verso il secondo. Non si può non riconoscere come tale situazione, con l'impoverimento della classe media e la ghettizzazione di sempre nuova “spazzatura bianca” si stia realizzando un po' ovunque, fatte le debite differenze locali.
Verso dove, dunque? Discutendo la letteratura scientifica più recente il libro mostra come «iperglobalizzazione, stati nazionali e politiche democratiche» siano strutturalmente incompatibili, riuscendo al limite a dare vita a combinazioni di due su tre: da questa fenomenologia risultano i possibili scenari che devono essere ridiscussi e che sono, in estrema sintesi, le condizioni dello sviluppo o del cambiamento futuro.

Neoliberalismo è attraversato da un intento pedagogico-politico che, senza rinunciare alla speranza di una democratizzazione della società e dei saperi, è lucidamente consapevole che poco potrà cambiare finché la scienza economica e il modo in cui viene insegnata – come fosse una scienza dura se non una teologia – continueranno a rimanere invariati. Il destinatario ideale di questo libro sarebbe in ultima analisi un esponente della classe dirigente policy-maker, l'eroe culturale di oggi iper-formato nel sapere neoliberale all'interno di un sistema di cooptazione blindato, spesso a partire da solidarietà di classe e da forti legami familiari.
«Una nuova classe di manager che operano in rete e a livello globale e che dalla finanziarizzazione dei mercati traggono un aumento di profitti e di potere […], quella classe che, in accordo sia con l'élite politiche, sia con i nuovi rentier della finanza, ha costruito quell'architettura oligopolistica dei mercati in virtù della quale si socializzano le perdite e si privatizzano i guadagni, al fine di utilizzare la crisi per rendere inoperante ogni forma di resistenza possibile» (p. 139).
Veri mitologi dell'iper-moderno, essi dettano imperativi comportamentali e generano emulazione e invidia sociale: abitano l'immaginario finanziario, bancario, borsistico, gestionale che promette margini di arricchimento infinito e sperimentano l'onnipotenza decisionale che oblitera il limite, la finitezza e la morte. Anche l'analfabetismo morale ed affettivo a cui ci siamo assuefatti (l'«alessitimia» che fa gridare al miracolo i media quando un pontefice della Chiesa cattolica formula ovvietà in ambito di solidarietà) rientra dunque negli effetti del combinato-disposto messo in atto in oltre trent'anni di politiche su larga scala.
Contro questa forma contemporanea di religio mortis la critica del mito neoliberale significa dunque rivalutazione della dissidenza emotiva e delle cornici utopistiche (ed eu-topistiche) entro le quali ripensare le proprie vite negli ambiti della partecipazione, della distribuzione e del riconoscimento. A chi, proprio per la formazione economica, non abbia la sensibilità di pensare alle categorie filosofiche fondanti la vita umana il libro permette di ripensare, anche in termini genealogici, agli effetti delle propria posizione nel sistema produttivo di beni e di immaginario. In accordo con l'impostazione socio -antropologica di Polanyi «è difficile negare che ogni processo economico è inserito in una cornice culturale e istituzionale più ampia» (p. 115): con lo sguardo fisso sulle rovine dell'esistente, da qui a comprendere che le «transazioni economiche (…) possono servire a scopi non economici» il passo potrebbe non essere così lungo.

Nessun commento:

Posta un commento