Ecco una recensione, versione lunga, di un libro importante sul presente.
Per il ferragosto di chi è rimasto o non è mai partito.
Giovanni
Leghissa,
Neoliberalismo. Un'introduzione critica,
Mimesis, 2012
Per
quanto amara possa essere, la crisi dell'economia mondiale potrebbe
avere quantomeno la funzione di creare le condizioni di attenzione
per un'intensa analisi critica dell'aspetto dogmatico assunto
dall'economia come la conosciamo. Essa è nella sua struttura logica
e nei quadri mentali dei suoi attori alla radice dei problemi
drammatici che moltissimi stanno vivendo, in Italia e più in
generale nell'area geopolitica che fino a qualche anno fa si
pretendeva modello di sviluppo universale. Tra le ricerche recenti il
libro di Giovanni Leghissa, un filosofo specialista di epistemologia
delle scienze umane, si presenta come un'agile (ma teoricamente
densa) disamina che riesce simultaneamente a chiarire le idee al
lettore colto che si interessi alla questioni economiche e a fornire
una preziosa sintesi operativa e un aggiornamento bibliografico allo
studioso. Il lavoro del ricercatore triestino, docente nell'ateneo
torinese, riempie quindi un vuoto concettuale (ed editoriale)
avvicinando le orbite, spesso inconciliabili, degli studi filosofici
e di quelli economici, permettendo a un pubblico afferente a diversi
ambiti di recuperare conoscenze per lo più ignote ai non
specialisti.
Il
primo pregio di Neoliberalismo
è di aggirare, tenendola sulla sfondo, l'analisi marxiana del reale,
tendenzialmente spuntata nella misura in cui lo stesso marxismo si è
configurato come verso
di una medesima concezione economicista. A livello di
rappresentazione sociale collettiva un sogno
del
marxismo, sempre più
confuso e sconosciuto nei suoi fondamentali, è diventato aspetto di
una «rivolta malinconica» – si lamenta una perdita senza sapere
cosa si è perduto e perché – contro la condizione attuale. Il
'capitalismo' tout court
diventa un mostro proteiforme e onnipotente dai contorni vaghi e
dalle mosse imprevedibili, mentre al contempo la merce, dal cui
acquisto fasce sempre più ampie di popolazione sono progressivamente
estromesse, viene esposta nei centri commerciali (o in rete) e si fa
forma fantasmatica del potere di acquisto, a sua volta estenuazione
del potere sulle condizioni materiali di conduzione delle proprie
vite. Per non dire di come l'antagonismo politico, perdutasi la forma
partitica insieme al sistema fordista e divenuta problematica quella
del movimento insieme alla militanza, possa diventare «oggetto di
consumo» e attitudine estetizzante con tenui o vaghi legami con le
condizioni di chi lo esprime. Non è un caso che Leghissa abbia
dedicato ampi studi alla filosofia del mito e delle mitologie e che,
in questo caso, abbia voluto decostruire le scienze economiche
riassegnandole alla sfera delle scienze umane per mostrare come alle
radici dei problemi attuali ci sia la naturalizzazione
dell'economico pienamente
realizzata dal secondo dopoguerra.
La
via dell'argomentazione passa attraverso l'ontologia dell'attualità
di Michel Foucault, il cui lavoro di critica del presente si presenta
come problematizzazione e chiarificazione di ciò che in prima
istanza si presenta ovvio
e senza alternative.
La critica dell'economia neoliberale si inserisce dunque nel più
vasto ambito dell'analisi dei processi di «soggettivazione», i
processi di natura sociale e culturale mediante i quali i soggetti si
definiscono e si riconoscono come tali, agendo secondo patterns
e scenarizzazioni già date, non apertamente scelte e solo in parte
consapevoli. Il
mondo economico del neoliberalismo viene definito e analizzato in
quanto
«dispositivo ‘governamentale’»: una antropotecnica (o fattore
di produzione di forme di vita) del sistema di ingegneria sociale
correlato all'autorappresentazione poietica dell'homo
œconomicus.
All'ultimo
Foucault e ai corsi tenuti al Collège de France si deve quindi la
delineazione del neoliberalismo come «cifra di una condizione, di un
modo di essere – e precisamente quel modo di essere in cui il
governo della vita trova la propria giustificazione negli effetti di
verità del discorso economico» (p. 34).
Fedele
all'impostazione di una «etnologia interna alla nostra cultura», la
genealogia del neoliberalismo è ricostruita con perizia dal punto di
vista storico attraverso i suoi snodi nel moderno (la ragion di
stato, la polizia) e le sue teorizzazioni (scuola austriaca,
ordoliberalismo tedesco, scuola di Chicago), per i quali il
neoliberalismo è soprattutto «arte di governo», intesa come
definizione e dispiegamento di un regime di pratiche in cui il
soggetto è parte attiva. Com'è
noto, per Foucault il
potere moderno si esercita in istituzioni disciplinari che hanno un
«potere di normalizzazione» e lavora in modo «microfisico»
permeando ogni piega della società. Esso si incarna dunque non tanto
nei simboli e negli eventi dell'uso pubblico e del monopolio
legittimo della violenza (come in Weber) quanto in una miriade
reticolare di campi di forze in tensione che coinvolge tutti gli
individui all'interno di più meccanismi impersonali, per indicare i
quali viene appunto usato il termine «dispositivi». Biopolitica
significa
la serie di strategie anonime in cui si realizza un potere opaco,
esercitato sulla vita delle persone e caratterizzato da controllo dei
corpi. Il neoliberalismo
rappresenta il grado storicamente più elevato di dispersione del
potere nel sistema, o la sua dislocazione punteggiata nella società,
che è il correlato degli interventi dei governi.
L'expertise,
la misurazione e la razionalizzazione tecnicizzata (fino ai i
“governi tecnici”) sono gli elementi operativi di
un'amministrazione del vivente coordinato sulla base di una griglia
che è
il dispositivo neoliberale, un intreccio il cui esito ultimo è la
metaconduzione delle condotte individuali che ha dato vita
all'«aziendalizzazione del sociale» in cui il mondo umano tende a
scomparire dietro alla concezione dell'impresa.
Qui la legge economica mostra il suo volto “totalitario” e volto
all'«inserimento di ogni atto comunicativo in una catena di
operazioni sistemicamente rilevanti atte a produrre efficienza, a
ridurre costi, ridondanza, incertezza», ovvero i tratti tipici
dell'umano.
Si
tratta dunque di analizzare la «macchina che produce la verità del
neoliberalismo», una «macchina discorsiva e istituzionale che fa
circolare i discorsi che vengono riconosciuti come veri», piuttosto
che smascherare l'aspetto ideologico in nome di una verità che
starebbe altrove. Lungi dal neutralizzare l'aspetto di prassi
politica che ne deriva dissolvendo la condizione materiale – questa
è la critica marxista al post-moderno – il vantaggio che deriva
dall'impostazione post-strutturalista è mostrare con più
radicalità, a partire da una concezione antropologica e
sociocostruttivista della realtà, l'artificialità della finzione
(nel
senso etimologico) neoliberale
come complesso contingente e determinato, a cui si può e si deve,
auspica l'autore, reagire con un adeguato gesto di
contro-scenarizzazione che chiama in causa le posture esistenziali
per l'edificazione cosciente e collettiva di differenti forme di vita
associata, produzione, distribuzione.
La
demitizzazione delle retoriche che accompagnano l'affermazione delle
politiche economiche del tardo XX secolo mostra come il discorso
neoliberale non sia un destino evitabile ma una condizione storica,
in quanto tale passibile di trasformazione e di mutazione, a
condizione di comprenderne il carattere procedurale e meccanico. Si
tratta dunque di condurre un'operazione di disincantamento rispetto
al «linguaggio della razionalità economica come unica cornice
narrativa per conferire senso e intellegibilità alle proprie vite»
(p. 10).
Altro
tratto cruciale del libro sulla scia dell'analisi foucaultiana è la
messa in chiaro dello strumentario teorico per l'analisi dell'epoca
che stiamo vivendo, in cui la “crisi” più che il fallimento di
un sistema appare come la sua dimensione estrema. Cosa è dunque il
neoliberalismo? Qual è la sua specificità rispetto al liberalismo?
Mentre nel liberalismo la sfera politica e quella economica risultano
sempre distinguibili, nelle logiche e nelle pratiche nella
«condizione neoliberale» ogni decisione sul governo delle vite
passa attraverso il filtro della razionalità economica, rendendo
inutile e impossibile la distinzione tra economia e politica.
Questo,
lungi dal significare la sparizione del politico, significa «che le
agenzie di governo dipendenti dagli stati si comportano come attori
economici, si mescolano al gioco dei mercati, e misurano l'efficacia
della propria azione in base a criteri che non lasciano più spazio
per un discorso sulla giustizia» (p. 10). Per Leghissa non è lo
Stato a scomparire in favore dell'economia: «ciò che scompare,
nello spazio politico dischiuso dalla condizione neoliberale, è
quella declinazione del politico che comporta conflitto e che demanda
alle istituzioni statali (…) la gestione del conflitto» (p. 23).
L'ordine
economico apparendo naturale risulta non negoziabile, a dispetto del
paradosso per cui un sistema pensato per la produzione di beni e
ricchezza produce emarginazione per i medesimi soggetti; allo stesso
modo, venuto meno il potenziale trasformativo dell'utopia ormai
condannata alla sfera dell'impossibile e della violenza da una
sensibilità post-totalitaria, l'impoliticità (per non dire
l'indifferenza) diviene una virtù pur convivendo accanto a forme
diversificate di solidarietà in un medesimo orizzonte, che non
prevede né ammette mutamenti sostanziali.
Viene
così riconfigurata la visione della globalizzazione: come serie di
processi all'interno dei quali grande potere viene acquisito su scala
mondiale «da una serie di attori che agiscono nei mercati globali al
di fuori del controllo statale» proprio grazie a «specifiche
decisioni politiche» prese dagli stessi governi. Non siamo dunque al
«ritrarsi dello Stato», ma di fronte al volto più recente della
governamentalità e di quella «diffusione dei centri di potere che
formano una rete complessa, all'interno della quale le istituzioni
giocano un ruolo fondamentale» (p. 76-77).
In
questo quadro si inserisce anche il pensiero post-coloniale, che solo
il ritardo culturale italiano impedisce di percepire come una pagina
centrale della contemporaneità e un paradigma per il suo studio. Per
Leghissa le politiche economiche neoliberali dell'Africa
sub-sahariana sono caratterizzate infatti dall'«uso creativo» che è
stato fatto dalle élite dominanti delle «risorse offerte dai poteri
statali per accrescere il proprio dominio», all'interno di
un'integrazione dei vari soggetti economici istituzionali
internazionali. Qui la biopolitica si rovescia nel suo opposto e
diviene necropolitica
come estrema conseguenza di politiche internazionali, accompagnate
dalla segmentazione etnico-classista e dal relativo repertorio di
narrazioni identitarie, ancora implicitamente razzisteggianti. Senza
voler giungere a scenari apocalittici per il futuro dell'Europa è
innegabile che la società globale si muova tra due estremi cetuali:
da un lato il «vertice che abita l'élite finanziaria e dei servizi»
(la «Disneyland dei grandi» che si ritrovano a Davos magistralmente
descritti da Carrère) e dall'altro la popolazione straniera esclusa
dai diritti di cittadinanza e sottoposta a controlli, restrizioni,
limitazioni (quando riesce a superare i bastioni della fortezza
europea). Mentre l'immaginario magnetizza i desideri verso il primo
polo, la realtà spinge le masse verso il secondo. Non si può non
riconoscere come tale situazione, con l'impoverimento della classe
media e la ghettizzazione di sempre nuova “spazzatura bianca” si
stia realizzando un po' ovunque, fatte le debite differenze locali.
Verso
dove, dunque? Discutendo la letteratura scientifica più recente il
libro mostra come «iperglobalizzazione, stati nazionali e politiche
democratiche» siano strutturalmente incompatibili, riuscendo al
limite a dare vita a combinazioni di due su tre: da questa
fenomenologia risultano i possibili scenari che devono essere
ridiscussi e che sono, in estrema sintesi, le condizioni dello
sviluppo o del cambiamento futuro.
Neoliberalismo
è
attraversato da un intento pedagogico-politico che, senza rinunciare
alla speranza di una democratizzazione della società e dei saperi, è
lucidamente consapevole che poco potrà cambiare finché la scienza
economica e il modo in cui viene insegnata – come fosse una scienza
dura se non una teologia – continueranno a rimanere invariati. Il
destinatario ideale di questo libro sarebbe in ultima analisi un
esponente della classe dirigente policy-maker,
l'eroe
culturale di oggi iper-formato nel sapere neoliberale all'interno di
un sistema di cooptazione blindato, spesso a partire da solidarietà
di classe e da forti legami familiari.
«Una
nuova classe di manager che operano in rete e a livello globale e che
dalla finanziarizzazione dei mercati traggono un aumento di profitti
e di potere […], quella classe che, in accordo sia con l'élite
politiche, sia con i nuovi rentier della finanza, ha costruito
quell'architettura oligopolistica dei mercati in virtù della quale
si socializzano le perdite e si privatizzano i guadagni, al fine di
utilizzare la crisi per rendere inoperante ogni forma di resistenza
possibile» (p. 139).
Veri
mitologi dell'iper-moderno, essi dettano imperativi comportamentali e
generano emulazione e invidia sociale: abitano l'immaginario
finanziario, bancario, borsistico, gestionale che promette margini di
arricchimento infinito e sperimentano l'onnipotenza decisionale che
oblitera il limite, la finitezza e la morte. Anche l'analfabetismo
morale ed affettivo a cui ci siamo assuefatti (l'«alessitimia» che
fa gridare al miracolo i media quando un pontefice della Chiesa
cattolica formula ovvietà in ambito di solidarietà) rientra dunque
negli effetti del combinato-disposto messo in atto in oltre
trent'anni di politiche su larga scala.
Contro
questa forma contemporanea di religio
mortis la
critica del mito neoliberale significa dunque rivalutazione della
dissidenza emotiva e delle cornici utopistiche (ed eu-topistiche)
entro le quali ripensare le proprie vite negli ambiti della
partecipazione, della distribuzione e del riconoscimento. A chi,
proprio per la formazione economica, non abbia la sensibilità di
pensare alle categorie filosofiche fondanti la vita umana il libro
permette di ripensare, anche in termini genealogici, agli effetti
delle propria posizione nel sistema produttivo di beni e di
immaginario. In accordo con l'impostazione socio -antropologica di
Polanyi «è difficile negare che ogni processo economico è inserito
in una cornice culturale e istituzionale più ampia» (p. 115): con
lo sguardo fisso sulle rovine dell'esistente, da qui a comprendere
che le «transazioni economiche (…) possono servire a scopi non
economici» il passo potrebbe non essere così lungo.
Nessun commento:
Posta un commento