sabato 21 dicembre 2013

dies natalis



Iside allatta Horus bambino, Roma II sec.



Celebriamo le feste.

Festeggiamo chi ci ama, le stagioni, le lune.
Ciascuno ritroverà la certezza che quaggiù c'è posto per lui.
Forse è questo, l'essenziale.


jeanne hersch


mercoledì 11 dicembre 2013

lemmario - Illusione



sui blocchi di Torino 9 dicembre e seguenti.


"La ribellione fascista nasce sempre là dove un'emozione rivoluzionaria viene trasformata in illusione per paura della verità ". W. Reich





Lemmario - Illusione





Il termine latino illusio, che significa ‘ironia’, ‘derisione’, ‘scherno’ deriva da illusus, participio passato del verbo illudo (ingannare), composto dalla particella ‘in’ e dal verbo ‘ludo’ (gioco), con significato di ‘inserire in un gioco’, ‘prendersi gioco’.
A partire da questo campo semantico, il termine italiano designa la rappresentazione ingannevole che proviene da un errore dei sensi, in quanto deformazione dell’atto conoscitivo che porta a considerare reale ciò che è invece il prodotto dell’immaginazione e dell’astrazione. Esempio tipico di percezione alterata che produce un’apparenza fallace, ovvero non corrispondente al vero, si ha con l’illusione ottica, consistente in una differente interpretazione dei dati sensoriali, o con l’illusione prospettica, errore determinato dal modo in cui gli oggetti si offrono al punto di vista.

Da tale nucleo concettuale si irradiano i significati del termine che indicano inganno, falsità, astuzia, scherno, e in relazione al pensiero magico-religioso tradizionale, anche incantesimo, apparizione diabolica, tentazione, fino all’illusionismo, come tecnica artificiale volta a stupire e meravigliare a fini ricreativi.


In senso traslato, in un ambito che riguarda teorie e concezioni della realtà di tipo religioso, filosofico o scientifico il termine viene utilizzato per indicare una credenza infondata, un giudizio errato, un’opinione erronea o una dottrina non sostenibile: tale concezione presuppone il possesso di una verità, a partire dalla quale viene definita falsità ogni esperienza ad essa non riconducibile.

In una accezione che contempla una sfumatura di carattere emotivo, interna alla sensibilità romantica, si considera un’illusione un’ardente speranza che non si realizzerà mai: essa è desiderio inappagabile, ideale vagheggiato, ambizione impossibile, sogno non attuabile il cui mancato raggiungimento è causa di pena tormentosa o malinconica rassegnazione a seconda dei casi.

La poetica leopardiana vede ad esempio la giovinezza come età dell’illusione, fatta di speranze, sogni e progetti, destinata a infrangersi “all’apparire del vero”, quando la vita adulta con la sua brutale fattualità delude inevitabilmente ogni sogno e costringe a un’amara rassegnazione.

Ma se l’illusione appartiene al regno dell’immaginazione, può giocare un ruolo differente e positivo proprio rispetto a quanto di deludente la realtà possa presentare alla vita. Come capacità di rielaborare immagini, ovvero prodotti della ‘fantasia’, l’immaginazione può trascendere la realtà alla luce del possibile: nell’esperienza dell’avanguardia surrealista è sottolineata la potenza dell’inconscio, che liberato dalle costrizioni sociali e razionali è capace di produrre associazioni mentali nuove ed inedite, segni di una realtà differente da quella consueta. 

L’illusione diventa così parte di quella facoltà inventiva che esprime in forma automatica e incontrollata una implicita critica al mondo nella forma estraniante della visione, dell’allucinazione e del sogno.

sabato 30 novembre 2013

lemmario - Assurdo





Assurdo


Il termine latino absurdus significa ‘dissonante’, ‘stonato’ ed è composto da ab (particella che indica allontanamento) e surdus, forse dalla radice sanscrita svar/suar (suonare). Già nell’antichità in senso figurato assume il significato che ha in italiano: ‘assurdo’ è ciò che è in contrasto con l’evidenza logica, intrinsecamente contraddittorio, privo di fondamento razionale e di riscontro nel senso comune. Metafora musicale, è una ‘stonatura’ che diverge rispetto all’armonia interna a un discorso.
Nel linguaggio comune il termine è usato tanto come aggettivo che come sostantivo, (riscontrato anche nella forma ‘assurdità’) per designare un fenomeno (atto, evento, ragionamento) che contrasta con le opinioni consolidate e si presenta come sconveniente, stravagante, inopportuno.
In filosofia l’assurdo è stato utilizzato nei ragionamenti come strumento dialettico fin dai tempi dei sofisti, maestri di retorica e professionisti dell’argomentazione che hanno elaborato nell’Atene democratica le regole della dimostrazione: per difendere la validità di una tesi si mette in luce l’impossibilità dell’affermazione contraria. Tale proposizione viene respinta mostrando l’assurdità delle conseguenze a cui si andrebbe incontro qualora venisse accettata.
Esso compare nelle forme di irrazionalismo o di parziale rifiuto della ragione che hanno caratterizzato diverse teorie filosofiche di matrice religiosa. Nel cristianesimno è opzione a favore della priorità della fede sulla ragione: credo quia absurdum era una formulazione del cristianesimo delle origini (Tertulliano, II sec.) volto a negare compromessi con la ragione e la cultura filosofica (“bisogna cercare Dio in semplicità di cuore”); verrà ripresa dalla tarda teologia medievale (XIV sec.) secondo cui, Dio, potentia absoluta dalla volontà imperscrutabile, è in grado di agire in qualsiasi modo, persino violando le leggi di natura, come avviene nei miracoli. In tal senso la Rivelazione e la pratica liturgica devono essere accettate come mistero della fede, irriducibili all’esperienza alla ragione e incomprensibili dalla ragione umana.
L’assurdo come irrazionalità è riscontrato anche nella filosofia moderna. Nel pensiero, profondamente religioso, di Soren Kierkegaard (1813-1855) l’esistenza dell’individuo si rivela incompatibile con la dimensione sociale e con ogni forma di ottimismo: il senso della vita si rivela nella solitudine e nella radicalità richieste da una fede assoluta. Ne sono la prova la scandalosa e paradossale richiesta di Dio ad Abramo di sacrificare il proprio figlio Isacco e la stessa Passione di Cristo, misteriosa umiliazione del divino nell’umano.
Nel Novecento esperienze artistiche come il Teatro dell’assurdo mettono in luce le contraddizioni della realtà, nascoste sotto la loro parvenza di linearità; le avanguardie letterarie come il futurismo, il dadaismo e il surrealismo esprimono l’estraniamento e lo sgomento a cui la modernità, dalle devastazione delle guerre alla pervasività del sistema di fabbrica, sottopone gli individui cresciuti nell’ottocentesco mito ottimistico del progresso. L’esistenzialismo ripropone il tema dell’assurdo su un piano teorico che nega ogni trascendenza e la presenza di una ragione interna alla storia e al mondo: la vita è per Sartre gratuita, priva di senso e non riconducibile ad alcuna razionalità (“Esistere è essere lì semplicemente. Gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può dedurre”). L’essere è un puro dato materiale, fattuale ed opaco che non prevede alcun fondamento extraumano e sovrastorico. Il divino scompare dall’orizzonte dell’essere umano che deve assumere su di sé la responsabilità della determinazione del senso e del divenire della società e della storia.

domenica 24 novembre 2013

lemmario - Furore





@FacesPics


Furore


Il termine ha origine dal latino furor, sostantivo derivato da furere ‘essere fuori di sé, impazzire’; indica lo stato di sconvolgimento della personalità che si manifesta come passione scomposta, delirio, ira, tipico dell’individuo che perde il controllo delle sue azioni e si abbandona alla gioia, alla collera, all’aggressività o alla violenza, con un impeto dai tratti animaleschi o estremi, assimilabili alle forze della natura.
Nell’antichità classica il furore era considerato di orgine divina: derivava dall’invasamento, ovvero la possessione della volontà dell’individuo da parte di un dio che ne dirigeva le azioni (entusiasmo, dal greco en e theos significa letteralmente “pieno di un dio”) ed era un aspetto dell’esaltazione profetica e sacerdotale. Anche l’amore era considerato causa di delirio, uscita da sé e oltrapassamento del senso della misura, secondo una concezione radicatasi poi nel tempo (si pensi all’Orlando furioso o alla cultura romantica).
Il filosofo rinascimentale Giordano Bruno (1548-1600) esprimeva la sua etica dell’azione con il nome di “eroico furore”(il primo termine veniva ricavato da eros). Immerso in un universo panteista e animato da forze vive, l’uomo è “arso d’amore” per l’infinito; la vita deve essere sforzo appassionato verso il superamento di ogni limite, spinta all’azione attiva e consapevole per la trasformazione della realtà, tensione verso l’unità con la natura divina.
In età moderna il termine perde il significato riferito alla trascendenza per designare aspetti negativi del comportamento individuale o collettivo che trovano la loro origine nella dimensione sociale, con particolare riferimento alle manifestazioni dell’ira. Recuperando un significato presente già nel latino, “furore” ricorre nella descrizione dell’agitazione e dello scompiglio che caratterizzano i tumulti e le sollevazioni popolari, che le classi dirigenti percepiscono come disordine e discordia interne al corpo sociale.
Tra Otto e Novecento, alimentato dalle ideologie, il termine è connesso alla dimensione politica: può essere tanto il “furore nazionalista” diffuso negli stati europei durante la Grande guerra, quanto il risentimento antiautoritario e antiborghese che accompagna le manifestazioni socialiste e le lotte del movimento operaio e sindacale.
In Vittorini il furore nasce come rabbia sociale per l’umanità schiacciata dal predominio delle forze trionfanti del fascismo europeo e, contestualmente, per gli orrori della guerra di Spagna, la prova generale del secondo conflitto mondiale. La repressione in Italia impedisce ogni sfogo di tali “furori”, definiti quindi “astratti”, responsabili dello stato di malessere e di prostrazione psicologica del protagonista di Conversazione in Sicilia.
Furore è il titolo italiano del capolavoro di John Steinbeck The Grapes of Wrath (1939, letteralmente “L’uva dell’ira”): esso narra del tragico esodo attraverso gli Stati Uniti di una famiglia durante la Grande depressione degli anni trenta, quando il mito della prosperità americana fu distrutto da una crisi economica di proporzioni inaudite. Milioni di persone persero il lavoro e si ritrovarono a lottare per sopravvivenza: nel romanzo un’umanità disperata si trascina da uno stato all’altro, trovando paghe miserabili, lavori semi-schiavili e un padronato feroce, alla ricerca di una redenzione che si manifesta in piccoli gesti di solidarietà.
Una differente accezione del termine, utilizzato in un’espressione risalente alla società dello spettacolo, sembra testimoniare la rottura con la cultura dell’impegno, avvenuta nel secondo dopoguerra: “fare furore” significa suscitare grande entusiasmo e riscuotere successo. A perdere il senno sono i consumatori di cultura pop nel testimoniare il loro apprezzamento verso i divi del cinema, della musica e della televisione, di cui si dichiarano fan (fanatic). L’intera sfera linguistica, proveniente dal sacro, viene risemantizzata nel profano, testimoniando la sostituzione del divino con l’effimero nei meccanismi di produzione dell’entusiasmo.

sabato 16 novembre 2013

lemmario - nostalgia


pezzi di lavori che ritornano, questa serie era per un manuale di letteratura per licei.
a volte ci si racconta anche così.





Nostalgia


Il termine francese nostalgie, dal greco nostos (ritorno) e algia (dolore, sofferenza), è un neologismo coniato dal medico dell’Università di Basilea Johannes Hofer nel 1688 per indicare lo stato psicologico e patologico diffuso tra i soldati svizzeri in servizio all’estero: il “male del ritorno” colpisce chi è lontano dal proprio paese, con sintomi quali febbre, allucinazioni e delirio, che scompaiono al rientro a casa. Ogni riferimento al desiderio di Ulisse, che soffre nelle sue peregrinazioni lontano da Itaca, o al neoplatonismo, che considerava l’Essere divino come patria dell’anima esiliata in terra, sono quindi costruiti a posteriori, mediante l’‘invenzione’ di un termine che designa un sentimento antico.
Nostalgia è lo stato di tristezza e rimpianto per la lontananza di persone o luoghi cari, il desiderio struggente di ritornare a casa, all’infanzia e agli oggetti importanti del proprio passato, di cui è vittima il migrante, costretto alla lontananza per cause di forza maggiore. Nella Dissertatio medica Hofer classifica la nostalgia come una malattia dell’immaginazione: per quanto siano le condizioni materiali (clima, paesaggio, abitudini alimentari) a creare sofferenza, il malato richiama ossessivamente una rappresentazione ideale della patria d’origine che non è mai reale, in un vissuto che fonde memoria e desiderio, processi cognitivi ed emotivi.
Il concetto di nostalgia perde progressivamente la connotazione medica per entrare nella sfera del sentimento e dalla metà dell’Ottocento il termine viene fatto proprio dalla letteratura: si pensi a Carducci nelle Rime nuove, che vagheggia una vita all'insegna della solarità mediante la celebrazione della natura e del passato, o all’opera di Ungaretti, in cui il termine assume sfumature che tengono insieme biografia (la nascita in Egitto), condizioni materiali (la guerra) ed esistenziali (la condizione umana).
Sovrapponendosi alla malinconia, dolce inquietudine non disgiunta da un certo compiacimento, la nostalgia diviene propensione a chiudersi in se stessi, atmosfera spirituale del desiderio inappagato o dell’aspirazione irraggiungibile a cui sono cari i paesaggi autunnali e le ore del crepuscolo. Quali che siano le sue ragioni (emigrazione, esilio politico, persone perdute…) la nostalgia è sempre il rimpianto di una situazione percepita come migliore rispetto a quella attuale, che comporta l’idealizzazione del passato e dell’origine (da qui anche la definizione di nostalgico, per chi rimpiange un momento storico, un assetto politico trascorso e concluso).
In termini psicanalitici, Freud chiama “sentimento oceanico”la sensazione di unità illimitata con l’universo derivata dalla condizione del neonato che non distingue tra se stesso e la madre, immerso in un’unione simbiotica e indifferenziata. La nostalgia, o meglio la sua radice, diviene il correlato del distacco originario dalla madre, l’archetipo di ogni processo di crescita e cambiamento, che significa sempre allontanarsi da qualcuno o qualcosa: fare i conti con una primigenia beatitudine ormai perduta, vorrebbe dire, in definitiva imparare a vivere.

sabato 26 ottobre 2013

70 anni di Shoah. La razzia del ghetto di Roma


altri materiali di archivio dal mio lavoro all'Unità dei primi 2mila


La deportazione dal Ghetto di Roma

Gianluca Garelli


Con la nascita della Repubblica Sociale, il destino degli ebrei italiani – già duramente provati dalla legislazione razziale in vigore dal novembre del ’38 – è segnato, in vergognoso ossequio all’alleato tedesco e sulla base dell’antisemitismo proprio di certe frange fasciste. Due mesi dopo, il 30 novembre, il Ministero dell’Interno avrebbe imposto l’arresto di tutti gli ebrei presenti nel nostro Paese, considerati “nemici” dell’Italia, e il sequestro dei loro beni. È previsto un premio per ogni ebreo catturato.
Comandi da eseguire? Non è così: la giustificazione, se mai può esservene una, proprio non regge. Nel marzo del ’43 il ministro bulgaro Dimitar Pesev aveva avuto il coraggio di imporre al proprio governo e al re Boris III, alleato con la Germania nazista, la revoca dell’ordine di deportazione di 48.000 ebrei, verificando personalmente che i prefetti avessero cura di astenersi dal commettere un’atroce barbarie per volere di Hitler.
In Italia, invece, lo zelo e l’impazienza dei nazifascisti hanno addirittura preceduto l’ordinanza del Ministero di una ventina di giorni. All’inizio di ottobre era stato accolto nella capitale un gruppo d’intervento delle SS sotto la guida dal capitano Theodor Dannecker – l’ufficiale che dal 1940 al ’42 aveva organizzato la deportazione degli ebrei francesi, ed ora si apprestava a occuparsi di quelli italiani. Dannecker si avvale della schedatura degli ebrei residenti in Italia che il regime monarchico-fascista aveva attuato a partire dal ’38, nonché dell’indirizzario completo degli ebrei romani raccolto con ogni cura da una squadra di agenti della questura (al comando del commissario Cappa).
La mattina del 16, i poliziotti tedeschi sanno dunque a quali porte bussare. Gli arresti durano dalle 5,30 alle 14. I catturati sono 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini, provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare. Gli uomini vengono immediatamente separati dalle donne e dai bambini. Dopo minuziosi controlli, all'alba del 17 vengono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, e quanti al momento della retata si erano trovati per caso nelle case dei ricercati – nell’insieme 237 persone. Delle 1022 persone rimaste, una sola non è ebrea: si tratta di una donna che non intende abbandonare un orfano malato che le era stato affidato. Morirà con lui nel lager.
Il 22 il treno giunge ad Auschwitz-Birkenau. A nessuno è permesso scendere fino al giorno successivo. Poi incomincia la selezione: 839 prigionieri sono destinati immediatamente alla camera a gas (gli anziani, i bambini, quasi tutte le donne). Gli altri 183 vengono utilizzati come lavoratori schiavi. Alla liberazione del campo, solo 17 sarebbero risultati ancora in vita, tra i quali una sola donna.


Domenica 26 settembre 1943, ore 18 I presidenti della Comunità Israelitica di Roma e dell’Unione delle comunità italiane sono convocati dal Maggiore delle SS Herbert Kappler all’ambasciata tedesca e invitati a consegnare 50 Kg d’oro entro un giorno e mezzo (si otterrà poi la proroga di qualche ora). In caso contrario è minacciata la deportazione di 200 ebrei.

Martedì 28, ore 18 Secondo le istruzioni di Kappler, l’oro richiesto viene consegnato in via Tasso. Seguono estenuanti controlli per il sospetto infondato dei nazisti che il quantitativo fosse inferiore al previsto.

Mercoledì 29, mattina reparti delle SS asportano archivi, documenti, registri e 2 milioni di denaro liquido dai locali della Comunità Israelitica. Non trovano gli arredi del Tempio e gli oggetti di pregio, messi precauzionalmente in salvo.

Sabato 9 ottobre Vengono arrestati parecchi ebrei segnalati in precedenza per attività antifascista.

Lunedì 11 Un ufficiale SS, nonché cultore di paleografia, con scorta armata irrompe nelle biblioteche della Comunità Israelitica e del Collegio Rabbinico e fa asportare libri antichi e preziosi codici manoscritti, che su carrozzoni merci saranno portati a Monaco di Baviera.

Venerdì 15, sera Una donna ebrea, da Trastevere, diffonde nel Ghetto la notizia che i tedeschi possiedono una lista di 200 capi-famiglia ebrei e intendono portarli via con tutte le famiglie. Nessuno dà credito all’informazione.
Ore 23 All’albergo Vittoria (al di fuori del Ghetto) viene arrestata una coppia di ebrei triestini
Ore 24 circa Nel Ghetto, drappelli di soldati tedeschi iniziano a sparare in aria, poi a lanciare bombe a mano, e proseguono per più di tre ore, per impedire a chiunque di uscir di casa.

Sabato 16, ore 5,30 circa Le SS (reparti specializzati giunti a Roma da poche ore) dispongono sentinelle agli angoli delle strade del Ghetto; in base a vari elenchi dattilografati di nomi, salgono poi nelle case e bussano agli appartamenti corrispondenti; sfondano le porte che non vengono loro aperte e prelevano tutti gli abitanti (compresi gli ammalati gravi), concedendo loro 20 minuti per preparare il necessario per il “trasferimento”, secondo le istruzioni fornite in un apposito foglio. Le famiglie rastrellate, incolonnate per strada e percosse col calcio dei fucili, sono radunate in un’area di scavi vicina ai resti del teatro di Marcello.
Ore 13 Nel Ghetto ha termine l’operazione, che si è svolta intanto con le stesse modalità, anche se più rapidamente, negli altri quartieri dell’Urbe. Tutte le vittime vengono caricate in camion e poi ammassate nel Collegio Militare di Via della Lungara.

Lunedì 18, all’alba I prigionieri sono condotti in autofurgone alla stazione Tiburtina e stipati su carri bestiame.
Ore 13, 30 Il treno viene consegnato al macchinista e parte mezz’ora dopo.


Il rastrellamento del Ghetto di Roma nel racconto di Giacomo Debenedetti
di Bianca Danna


Giacomo Debenedetti (1901-1967), critico letterario, sfuggì alla deportazione nascondendosi in casa di una vicina. Nel giugno ‘44 si unì alle formazioni partigiane attive sull'Appennino toscano.

Era venerdì, la sera del 15 ottobre. Ogni venerdì, «all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del sabato». Erano già tutti in casa. Ma l’angoscia irrompe, turba il tempo del rito. «Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia», è la prima figura umana che vediamo nel Ghetto. È venuta di corsa da Trastevere, con il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano «una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie». Nessuno vuole crederci, molti ridono. «Credetemi! scappate, vi dico! - Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli! - Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste». Nemmeno Cassandra, secondo Omero, fu creduta quando annunciava la sventura della sua città, benché figlia del re. Qui però l’Autore non intende scrivere epica o tragedia, ma cronaca fedele ai fatti. E ha rintracciato molti testimoni di quella sera, convinti che la «poveraccia», la «pazza» si confondesse con un pericolo ormai scongiurato, vecchio di una ventina di giorni.
A fine settembre, infatti, le SS di Kappler avevano minacciato di deportare duecento ebrei - italiani doppiamente colpevoli, è il pretesto: traditori dopo l’8 settembre e da sempre nemici della Germania per razza - se la Comunità Israelitica di Roma non avesse consegnato 50 chili d’oro. In un giorno e mezzo si raccolse l’oro, con la vigilanza della Questura italiana, l’offerta ufficiosa di aiuto del Vaticano (gradita ma poi non accolta) e l’imbarazzata, ma generosa donazione di molti «ariani»; si portò l’oro in via Tasso, a un certo capitano Schultz, maniacale nell’accertare che gli ebrei non avessero frodato il Reich. Così non era, ma l’indomani (29 settembre) i reparti di Kappler ripulivano i locali della Comunità del denaro liquido, e l’11 ottobre la sua Biblioteca, nonché quella del Collegio Rabbinico, di libri, manoscritti, codici e pergamene. Finiscono così a Monaco di Baviera, forse sugli stessi carrozzoni merci che serviranno cinque giorni dopo per caricare i deportati, «le fonti autentiche di tutta la storia, fin dalle origini, degli ebrei di Roma, i più vicini e diretti discendenti dell’antico giudaismo». «Generazioni che parevano passate su questa terra veramente come la schiatta delle foglie, attendevano dal fondo di quelle carte che qualcuno le facesse parlare».
Qui, nel commento al furto della memoria storica del Ghetto, Giacomo Debenedetti lascia intendere il senso più alto, più toccante che il suo resoconto, e forse la letteratura intera, può assumere. Restituire, attraverso un paziente vaglio di testimonianze, le voci di chi fu costretto al silenzio. Farci rivedere ciò che videro, risentire ciò che udirono.
Spari verso la mezzanotte, bombe a mano sui marciapiedi del ghetto, grida colleriche di soldati, per due, tre ore (Così nessuno penserà di uscire, prenderanno tutti). I mamonni, gli sbirri, verso le 5 del sabato 16 ottobre bloccano strade e case del Ghetto. Da una casa della stretta via S. Ambrogio, la signora Laurina S. sente lamenti e grida. Si affaccia e vede passare in mezzo alla via del Portico le famiglie rastrellate, spinte avanti col calcio dei mitragliatori. In una scena corale - la cui regia, avverte il narratore, era «nelle cose stesse» - «le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini»; «i ragazzi cercano negli occhi dei genitori (…) un conforto che questi non possono più dare».
Passano vecchie inferme, giovani donne che implorano i soldati e ricevono percosse, un paralitico portato a braccia (finirà scaraventato sul camion «come un mobile fuori uso»). Laurina stessa, ascoltati gli ordini incomprensibili del caposquadra SS, leggerà ai vicini il biglietto che porta scritte a macchina, in tedesco e in italiano, le indicazioni per il “trasferimento”: hanno venti minuti per prendere con sé viveri per almeno 8 giorni, carta d’identità, eventuale valigetta con effetti personali, denaro e gioielli. Gli ammalati, anche gravissimi, non possono restare indietro. «Infermeria si trova nel campo».
Insomma, «il biglietto parlava chiaro». Eppure le ultime parole che Ester P., allora dodicenne, ricorda della zia («torna a casa, se no poi papà mi strilla») dicono come Loro continuassero «a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima». Del resto la salvezza di Laurina, grazie alla sua gamba ingessata, e quella degli uomini in fila per la distribuzione di sigarette, che nessun tedesco ebbe lo zelo di cercare, fanno ritenere a Debenedetti che la brutalità delle SS fosse, quella mattina, professionale più che sadica, malgrado le eccezioni: contava consegnare ai mandanti «un certo numero di ebrei», un migliaio circa, numero non solo raggiunto ma anche superato. Come scrisse Moravia in una sua introduzione a 16 ottobre 1943, «Il razzismo è un'ideologia di massa; e le sue vittime (...) sono anch'esse massa».
Li portano dapprima nella fossa di un’area di scavi, ai piedi della palazzina delle Antichità e Belle Arti, poi, sui camion, nel Collegio Militare, dove separano donne e uomini, «i più ben portanti (…) col capo volto verso il muro»: questo e altro, compreso il divieto, quasi sempre, di raggiungere le latrine, rende subito evidente «il proposito di umiliare». Si attende l’alba del lunedì per stivare tutti su carri bestiame, che lasciano la stazione di Roma-Tiburtino alle 14. La ricerca dell’esattezza fa registrare ancora il nome e la relazione del macchinista (a Orte, tentativi di fuga, repressi con le armi; a Chiusi, si scarica il corpo di una deceduta). Fino al termine della cronaca, l’accuratezza dell’indagine (il “metodo filologico”) rivela un “abito morale”, un “metodo umano”: quello che il Debenedetti saggista, pochi anni dopo, avrebbe teorizzato parlando delle Lettere di Gramsci (“Tener conto di tutti i fattori che compongono l'uomo; non sentirsi mai il diritto, o l'arroganza, di trascurarne alcuno”). Il rigore impersonale del resoconto, in 16 ottobre, non attenua mai la pietas di chi vorrebbe, e non può, sottrarre all’oblio altri particolari, altre impressioni: il viso di una bambina, dietro la grata del vagone piombato, che a una viaggiatrice su un altro treno era parso di riconoscere; il viaggio dopo che quel macchinista smontò; il nome dei nati nel cortile del Collegio Militare, il sabato notte: non certo “pellegrino in terra straniera”, come chiamò Mosè il figlio della schiavitù: «i due nati in quella notte senza Mosè erano pellegrini verso le camere dei gas».


La Carta di Verona, costituzione della Rsi

Tra il 14 e il 16 novembre 1943 il Partito fascista repubblicano si riunisce in cogresso a Verona:
“È stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti! Secondo questi ‘sinistroidi’, potremmo oggi addivenire all’abbracciamento generale anche con loro. Da tutte queste manifestazioni verbose si può facilmente arguire quanto pochi siano i fascisti che abbiano idee chiare in materia di fascismo…”. A parlare è lo stesso Benito Mussolini (peraltro assente) riferendo a Giovanni Dolfin dell’andamento del Congresso. Quella che avrebbe voluto essere una vera e propria Costituente, per “consacrare” con il mandato popolare un programma finalizzato a sconfiggere “sul piano delle idee e dell’adesione spontanea” (Frederick Deakin) il governo Badoglio al Sud e la nascente resistenza al Nord diventa un’assemblea caotica la cui unica conseguenza sarebbe stata l’inasprimento della politica antisemita, dei contrasti nell’Italia Settentrionale, e quindi l’accelerazione della guerra civile. A interrompere i lavori è addirittura la spedizione punitiva a Ferrara dove era stato ucciso il “camerata” Igino Ghisellini, molto probabilmente per una faida interna allo stesso Pnf. L’episodio diventa il pretesto per un’azione contro ebrei, antifascisti, comuni cittadini. Le squadre fasciste nel giro di poche ore rastrellano ottantaquattro persone, e per rappresaglia uccisidono undici ferraresi.
Parlare di costituente è alquanto improprio: nella nascente Rsi, stato fantoccio in mano ai tedeschi, sarebbe stata del tutto inconcepibile una dialettica fra partiti diversi. Come ha osservato Luigi Ganapini, una costituzione è un patto, “scaturisce da un accordo tra i cittadini. Ma c’è spazio per accordi o dibattiti nella Repubblica delle camicie nere? Partito – il partito fascista repubblicano quale si delinea dopo il trauma del tradimento – e Costituente non sono forse agli antipodi?”.
L’assemblea di Verona approverà senza discuterlo un manifesto, steso con l’interessatissima collaborazione dei tedeschi qualche giorno prima, e sottoposto bell’e pronto dal segretario Pnf Alessandro Pavolini al congresso. Si tratta di una carta in 18 punti, in cui lo spreco di slogan è pari soltanto alla quantità di contraddizioni. Rivendicando in termini piuttosto generici la natura “sociale” della costituenda repubblica, la carta proclamava fra le altre cose il cattolicesimo religione di Stato, attestando formale rispetto per gli altri culti non in conflitto con la legge e affermando all’art. 7, che “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica” (formulazione, pare, dovuta al ministro Preziosi). Nella sostanza, si trattava dell’ennesima tappa di un cammino incominciato esplicitamente negli anni precedenti il conflitto e nello specifico, con le leggi razziali del 1938 nella cieca, incondizionata e zelante accettazione delle politiche tedesche.
Il congresso di Verona rappresentò un confuso teatro di incontro e scontro di temi e slogan che avevano caratterizzato oltre vent’anni di regime; un dibattito, a tratti convulso, fra generazioni di fascisti, divise fra istanza di rinnovamento impossibile e nostalgici appelli per un ritorno allo squadrismo degli anni Venti, accompagnato da parole d’ordine vagamente anarcoidi e antiplutocratiche: è ancora Mussolini a commentare “E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. È al fronte che si decidono le sorti della Repubblica… e non certo nei congressi!”.
Il manifesto di Verona avrebbe mostrato, a quanti desiderassero in qualche modo la restituzione di una parvenza di convivenza civile nell’Italia dilaniata dalla guerra e dal Ventennio, in che misura un tale disegno non fosse realizzabile attraverso la scelta di Salò.

estratto dalla “Carta di Verona”
Il primo rapporto nazionale del Partito Fascista Repubblicano: leva il pensiero ai caduti del Fascismo repubblicano sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle “foibe” dell’Istria e della Dalmazia, che si aggiungono alla schiera dei martiri della Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostituzione delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati dal Fuehrer le mete che sovrastano a qualunque altra in importanza e urgenza.[…]
In materia costituzionale ed interna

1. - Sia convocata la Costituente, potere sovrano, di origine popolare, che dichiari la decadenza della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2. - La Costituente è composta dei rappresentanti di tutte le associazioni sindacali e di tutte le circoscrizioni amministrative, comprendendone i rappresentanti delle provincie invase, attraverso le Delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero […]
[…]
5. - L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea Rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.
6. - La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7. - Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
In politica estera
8. - Fine essenziale della politica estera della Repubblica dovrà essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale della Patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla Storia; termini minacciati dal nemico con l’invasione e con le promesse di Governo rifugiato a Londra. Altro fine essenziale consisterà nel far riconoscere la necessità dello spazio vitale, indispensabile a un popolo di 45 milioni di abitanti, sopra un’area insufficiente a nutrirlo.
Tale politica si adoprerà inoltre per la realizzazione di una "comunità europea" con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti princìpi: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto, sono già civilmente e nucleamente organizzati.
(…)
18. - Con questo preambolo alla Costituente, il Partito dimostra non soltanto di andare verso il popolo, ma di stare con il popolo. Da parte sua il popolo italiano deve rendersi conto che vi è per esso un solo modo di difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani: ributtare l’invasione schiavista delle plutocrazie anglo - americane, la quale, per mille precisi segni, vuol rendere ancor più angusta e misera la vita degli Italiani. Vi è un solo modo di raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere.







venerdì 20 settembre 2013

Cefalonia. 7tantaResistenza


i miei archivi, sulla strage di Cefalonia. c'è la scuola media intitolata ai suoi caduti nel quartiere da dove vengo.




Cefalonia, 14-24 settembre 1943

Gli avvenimenti di Cefalonia


Enrico Manera

Quando l’8 settembre 1943 viene reso noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, il paese e le forze armate precipitano nel caos. Di fronte al tergiversare delle autorità italiane, che continuavano a rinviare l’annuncio dell’armistizio, la notizia è diffusa da Radio Algeri (controllata da angloamericani e da francesi degaullisti) alle 18,30. Solo in serata, dopo ore di silenzio, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, in fuga verso Brindisi, fanno diffondere dalla radio un comunicato in cui l’armistizio è confermato. Alle forze armate e agli apparati amministrativi dello Stato non vengono date indicazioni di comportamento, se non quella di cessare in ogni luogo le ostilità contro le forze angloamericane e, ambiguamente, di difendersi contro attacchi provenienti «da qualsiasi parte» (sono le cosiddette ordinanze OP 44 e 45). Privi di direttive precise, i reparti del regio esercito iniziano a sbandarsi. Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre le unità dell’esercito tedesco, calato in forza nel paese dopo il 25 luglio, cominciano a disarmare le truppe italiane e a occupare punti strategici, aree industriali e vie di comunicazione. Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle opposizioni, comunica la costituzione del Comitato di liberazione nazionale, lanciando un appello alla lotta e alla resistenza, senza nascondere la richiesta di sostituzione del governo in carica, della fine della monarchia e dell’istituzione della repubblica.
Per le truppe italiane fuori dal territorio nazionale, incapsulate dai reparti tedeschi che ne avevano praticamente accerchiato la maggior parte nelle settimane successive la caduta di Mussolini, la situazione diventa drammatica. Nell’isola di Cefalonia, nel mar Ionio, occupata dal regio esercito dalla primavera 1941, dopo la resa della Grecia di fronte all’aggressione italogermanica, è stanziata un po’ più della metà (11 700 tra soldati ed ufficiali) della divisione «Acqui», assieme al suo comandante, il generale Antonio Gandin; il resto (circa 10 000 uomini) è sulla vicina isola di Corfù. Il 14 settembre 1943 i militari italiani a Cefalonia, dopo una consultazione interna che coinvolge ufficiali e soldati, rifiutano di obbedire all’ordine dei tedeschi di consegnare le armi e di arrendersi, e si apprestano a resistere con le armi (non senza, nel frattempo, aver fucilato cinque greci che avevano manifestato in pubblico contro l’occupazione italiana che si protraeva da oltre due anni). Di fronte al rischio di un collegamento tra le truppe britanniche che nel frattempo hanno raggiunto Brindisi e le unità italiane che continuano a tenere diverse isole del Dodecaneso, i comandi tedeschi decidono di attaccare Cefalonia e Corfù e di applicare l’ordine, emanato il 10 settembre dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), secondo il quale gli ufficiali italiani che avessero dato ordine di resistere dovevano essere fucilati. La battaglia che ne segue si conclude tra il 22 e il 24 settembre: 1300 soldati e ufficiali italiani muoiono durante negli scontri, oltre 5000 vengono fucilati dopo essersi arresi, altri 1400, fatti prigionieri e caricati su alcune navi, scompaiono in mare. Dei circa 4000 sopravvissuti, 2500 verranno trasferiti nei campi d’internamento militare in Germania, mentre gli altri saranno utilizzati a Cefalonia come manovalanza coatta al servizio dei tedeschi fino allo sgombero dell’isola da parte della Wehrmacht, nel settembre 1944. Solo un piccolo gruppo di ufficiali e soldati riuscì a sottrarsi alla cattura e ad unirsi alle forze della Resistenza greca operanti nell’isola.
Se Cefalonia è il caso più noto, nella convulsa fase di sbandamento caratterizzata dall’assoluta assenza del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali in fuga (è il caso di ricordare che la mancata dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo italiano fu presa a pretesto dalle autorità civili e militari tedesche per dichiarare «franchi tiratori», e perciò passibili di fucilazione, quei militari italiani che avessero rifiutato di cedere le armi), gli episodi di resistenza che hanno come protagonisti membri dell’esercito italiano sono stati numerosi, da Corfù (anche in questo caso per opera degli uomini della divisione «Acqui») a Lero, a Scarpanto, a Spalato, a Barletta, al Moncenisio.
Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti di Cefalonia hanno promosso attivamente una mobilitazione per ottenere giustizia nei confronti dei 31 militari tedeschi responsabili dell’eccidio, che a Norimberga era stato definito «una delle azioni più arbitarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato». In quella sede il generale Hubert Lanz, comandante del XII corpo d’armata da montagna, in cui erano inquadrate le unità responsabili della strage di Cefalonia, era stato condannato a 12 anni di carcere, di cui però solo cinque scontati. Le pressioni poc’anzi ricordate indussero all’inizio degli anni Cinquanta il Tribunale militare territoriale di Roma ad aprire un duplice procedimento, per «omicidio di prigionieri di guerra» contro gli ufficiali della Wehrmacht, ma anche, per «cospirazione e rivolta», contro 28 ufficiali italiani sopravvissuti che erano stati tra coloro che più attivamente si erano adoperati per convincere Gandin a resistere! Nel 1957 questo secondo gruppo fu assolto con formula piena, ma di una sentenza analoga avrebbero beneficiato, nel 1960, i tedeschi. L’andamento del processo fu pesantemente influenzato dalla situazione politica internazionale, che indusse le autorità politiche occidentali a sostenere la tesi di una Wehrmacht sostanzialmente immune da responsabilità nelle stragi naziste, totalmente addossate alla SS ed alla Gestapo, per favorire il riarmo della Germania in funzione antisovietica. Furono in particolare due ministri del governo Segni nel 1956, il liberale Gaetano Martino e il democristiano Paolo Emilio Taviani a impegnarsi in tal senso. Recentemente Taviani, intervistato da «l’Espresso», ha ricordato che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise […] l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria con tutte le ripercussioni che chi ha vissuto in quel periodo conosce bene».
La rivalutazione del caso Cefalonia da parte del presidente della repubblica Ciampi costituisce solo l’ultimo dei segnali di attenzione verso quei drammatici avvenimenti da parte della storiografia antifascista, dell’associazionismo democratico di ogni colore e di chi aveva combattuto per la Liberazione.

«l’Unità», 11 maggio 2001



La memoria di Cefalonia e la malafede del centrodestra


Brunello Mantelli

«I soldati che combattevano nella divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per altri non meno nobili, ma «di parte», come del resto diceva la sua qualifica, non di patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero inquinato il Dna e il blasone». Così, il «Corriere della Sera» del 1° marzo 2001 commentava la visita di Ciampi a Cefalonia, sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto – parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect». La tesi viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere», là dove si afferma che il presidente avrebbe «corretto la storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo» i militari. Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore del quotidiano milanese nonché professore di Storia contemporanea all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o "addomesticati" per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia come episodio ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale «rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani rispetto a quella dei militari.
Ma chiediamoci: il punto di partenza di queste affermazioni è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana, pubblicata da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità, perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato «plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione “Acqui” non cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che, vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella carica di presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Rappresenta perciò autorevolmente la storiografia antifascista.
«L’esercito si disgregò immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia, dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e Pasquale Villani e pubblicato nel 1974 da Principato. Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e ingaggiarono battaglia [...] I nazisti, sopraffatte le truppe italiane in durissimi scontri […] procedettero alla fucilazione della maggior parte dei superstiti. […] A Cefalonia la decisione di resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e soldati», così la Storia d¹Italia 1860-1995 pubblicata nel 1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto de Bernardi e Luigi Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, e Gerhard Schreiber, dell’omologo Ufficio storico della Bundeswehr).
Pare sufficiente a dimostrare che raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune che, attribuendo alla sinistra e alla storiografia a essa vicina rimozioni, censure e distorsioni della verità storica (non importa se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica democratica.
Un ultimo appunto: forse è fatica sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria; ma da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di impugnare la penna – vadano a controllare le fonti. In questo caso bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.

«l’Unità», 11 maggio 2001